giovedì 20 ottobre 2011
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«La vendetta sarà enorme», questa è stata la terribile promessa del presidente turco Gul. E ci sono poche speranze, purtroppo, che si tratti solo di un artificio retorico. Le Forze armate turche hanno sempre risposto con grande durezza agli attacchi del partito dei lavoratori kurdi (Pkk) che da decenni si erge a difensore dei diritti dei curdi in Turchia (e non solo). Quest’ultima strage di soldati, la più sanguinosa dagli ultimi vent’anni, accentuerà ulteriormente il clima di tensione nella regione curda, che interseca una delle regioni più calde del pianeta, fra Turchia, Iran, Iraq e Siria.Da mesi il Pkk ha ripreso gli attacchi contro le forze armate turche, dopo un lungo periodo di relativa calma. Ufficialmente per spingere Ankara a maggiori concessioni verso la minoranza curda, politicamente e culturalmente discriminata nel Paese. Ma se questo è l’obiettivo, difficile immaginare una ricetta più autolesionista degli attacchi terroristici. Negli ultimi anni il governo turco aveva infatti aperto ad alcune concessioni culturali e linguistiche con la sua "Iniziativa curda" del 2009. Poche, insufficienti e timide riforme senza dubbio, ma le prime dopo decenni di chiusura totale. Il primo ministro Erdogan – nella sua partita a scacchi per il potere con le Forze armate – aveva sottolineato più volte l’importanza della democrazia e del rispetto dei diritti umani quali chiave per risolvere il conflitto, scontentando qualche generale. Dopo l’ultimo attacco, ogni prospettiva di dialogo politico viene a cadere – almeno nell’immediato – e la parola ritorna alle armi, con sconfinamenti di truppe turche nel Kurdistan iracheno.Anche questa non una novità: dopo la caduta di Saddam, sia i turchi sia gli iraniani hanno preso l’abitudine di bombardare le zone di confine curde per combattere gli autonomisti attivi nei loro Paesi. Una pratica contro la quale il governo autonomo curdo iracheno di Erbil può poco. E in fondo, si fa notare, l’alleanza curda al potere in quella porzione d’Iraq non è troppo dispiaciuta se Ankara o Teheran indeboliscono formazioni rivali. Tanto più che i due vicini hanno investito molto nel Kurdistan iracheno, contribuendo al rilancio economico.Secondo alcune voci d’intelligence, il recente attivismo del Pkk potrebbe nuovamente beneficiare anche del sostegno della Siria, che per anni aveva appoggiato quel movimento in funzione anti-turca (e in cambio della tranquillità dei curdi siriani). A Damasco potrebbero aver non gradito la condanna dura fatta da Erdogan delle repressioni del regime di Assad, si fa notare, e avrebbero risposto favorendo nuove azioni militari. Una spiegazione che ha forse in sé elementi di verità, ma che non è certo sufficiente.In realtà è il quadro generale degli obiettivi delle popolazioni curde, divise fra i quattro Paesi, a essere in questi mesi confuso. Indipendenti di fatto nel nord dell’Iraq, in forte agitazione in Siria, sotto pressione in Iran, ove si stanno riacutizzando le tensioni fra centro e periferia, in particolare con gli azeri e i curdi nel nord, drammaticamente all’attacco in Turchia. L’impressione è che certe durezze servano anche ai movimenti storici curdi per evitare l’emergere di nuove voci di rappresentanza. Meno ossessionate dalle rivendicazioni etniche e più attente al benessere sociale ed economico, alla gradualità di un processo di riconoscimento della propria specificità. Nel Kurdistan iracheno, ad esempio, la retorica nazionalista dell’alleanza al potere, copre un governo poco democratico e clientelare contro il quale vi sono crescenti proteste. Che hanno portato anche alla nascita di un nuovo partito curdo: Goran, cambiamento.E la consapevolezza di un cambiamento deve maturare anche in Turchia, tanto ad Ankara, ancora troppo tetragona dinanzi alle richieste di rispetto delle minoranze, quanto fra i curdi di quel Paese. Non saranno certamente le logore, sanguinose ricette del Pkk a dare quei frutti di rispetto identitario tanto attesi.
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