domenica 12 luglio 2009
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Caro Direttore, propongo una mia modesta riflessione mattutina che ho fatto oggi, 1 luglio, al rientro in ufficio. Con le gravi sciagure e i problemi che ci attanagliano forse potrà sembrare un po’ fuori luogo, comunque ci provo. Appena mi siedo alla scrivania per iniziare il lavoro, il pensiero mi corre alle mansioni da svolgere e contemporaneamente viene «disturbato» dalle voci e dall’andirivieni dei colleghi indaffarati nelle varie attività. Non do alla cosa alcun peso in quanto vi sono abituato da anni. Ciò che invece sempre mi ha provocato fastidio e al contempo compassione è la frenesia – a volte sfociante nell’arroganza – con la quale qualcuno si atteggia quasi a padrone del palazzo. Questi poveretti non sanno che il loro posto di lavoro è fugace e che, anche a causa della grave crisi economica, potrebbero trovarsi sulla strada di punto in bianco. Che resterebbe a quel punto della loro protervia? Meglio dunque la semplicità; questa «paga» sempre, sia nella buona che nella cattiva sorte. Contemporaneamente al pensiero l’occhio mi cade sul calendarietto di san Pio che tengo sulla scrivania. È ora di cambiare mese, quindi volto pagina. Un detto del santo di Pietrelcina mi colpisce subito e dice: «Vi raccomando vivamente la santa semplicità».

C. Carbonini, Tirano (So)

L’esortazione di san Pio racchiude un tesoro di saggezza e un capitale di vantaggi in termini pratici. A chi vive nella semplicità autentica, la vita – che non fa sconti a nessuno – si spiana e sorride. Certo la semplicità è una conquista, è il traguardo di un cammino impegnativo e spesso impervio, ma alla fine garantisce una rendita impareggiabile. La semplicità è semplificazione profittevole della complessità inutile e costosa, la quale è parente stretta del vuoto. Il «Rorate», bellissimo canto gregoriano del tempo d’Avvento, descrive con parole commoventi questa comune condizione postmoderna di complicazione e di vacuità: «... Ecco, vuota è questa mia vita; come abbandonato io mi sento, questa creatura fatta per un destino di gioia perfetta e di amore. Abbiamo ceduto al male, ci siamo complicati, siamo crollati come foglie d’autunno». Etimologicamente, il termine complessità deriva dal latino «cum plex» («con pieghe»), ovvero difficoltoso; il suo contrario «sin-plex», come si può intuire, significa invece «senza pieghe»; e ancora, il verbo «spiegare» (ovvero «togliere le pieghe») significa semplificare, rendere semplice – comprensibile – ciò che è complesso, come per esempio il mistero dell’esistenza. La figura fantozziana dell’impiegato zelante e protervo, forte coi deboli (i suoi colleghi subordinati) e debole coi forti (i suoi superiori), è un archetipo della commedia umana d’oggi: l’ometto si agita per una gratifica su cui ha investito tutto se stesso, e non s’avvede che gli sfugge ciò che veramente conta, ovvero la serenità, la pace, l’armonia con gli altri. Per la filosofia medievale, che era cristiana, la semplicità era una prerogativa peculiarmente divina, inerente la natura intima di Dio: la «claritas», la luce della Rivelazione, non solo illumina ma chiarisce, indicandoci la strada e la condotta. Così la pensavano Cusano, Scoto, Grossatesta. Quest’evidenza sembra sfuggire alle menti e alle sensibilità degli uomini d’oggi, o almeno della gran parte. Tenga sempre in evidenza il suo caro calendarietto: la saggezza fa sempre bene, anche presa in pillole.

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