giovedì 29 dicembre 2011
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Caro direttore,
quando penso all’eutanasia una parte di me aderisce d’impulso alla tesi di Montanelli: «Ritengo che tra i diritti dell’uomo ci sia anche quello di congedarsi dalla vita quando que­sta sia diventata un calvario di soffe­renze senza speranza e, mettendolo alla mercé degli altri, gli abbia tolto anche la possibilità di difendere il proprio pudore, e quindi la propria dignità». Riflettendo, mi accorgo che la questione nasconde profondità da analizzare. Per semplificare, è uti­le ricorrere a un grafico: una linea o­rizzontale in cui, all’estremo di de­stra, poniamo la scritta accanimen­to terapeutico e, all’estremo di sini­stra, suicidio assistito (morte prati­cata da se stessi sotto la guida di e­sperti) ed eutanasia (morte indotta direttamente da esperti). L’accani­mento terapeutico (detto anche vi­talismo medico) è legato all’impera­tivo ippocratico di far sempre tutto il possibile per prolungare la vita del paziente. Questa posizione, conna­turata nella psicologia dei medici, è entrata in crisi con l’evoluzione del­la medicina che permette di tenere in vita una persona per tempi inde­finiti, prolungandone anche le tor­ture, per cui si è compreso che la vi­ta non è sempre un bene e la morte non è sempre il peggiore dei mali.
Anzi, è stata proprio la Chiesa, in un famoso pronunciamento di Pio XII, nel 1957, a porre una relazione di proporzione fra mezzi terapeutici e possibilità di vita. Oggi l’accanimen­to terapeutico è rifiutato da tutti. Ri­mangono due posizioni. La tesi dell’eutanasia, secondo cui la morte volontaria è lecita qualora la vita di­venta peggiore della morte. E la tesi intermedia, che porremo al centro del grafico, secondo cui l’eutanasia non è mai moralmente ammissibile, perché equivale a un omicidio–sui­cidio, ma è lecito sospendere cure che configurino un accanimento te­rapeutico. Quest’ultima è la tesi cat­tolica. Per i cattolici (ma non solo per essi), l’atteggiamento corretto è quello della medicina “per” la perso­na e palliativa, basata sull’umaniz­zazione della morte e sull’accompa­gnamento dei morenti, attraverso la comprensione e l’affetto, evitando artifici tecnici e lasciando che la na­tura faccia il suo corso. È stato detto che la Chiesa non parla per l’oggi ma per il domani. E se essa attraver­so i suoi documenti continua a gri­dare «Non licet», ci sono ragioni profonde. L’eutanasia, sostiene Gio­vanni Paolo II nell’enciclica “Evan­gelium vitae”, «Comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinun­cia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo… Essa costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte… Si ri­propone così la tentazione dell’E­den: diventare come Dio… Si rag­giunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, me­dici o legislatori, si arrogano il pote­re di decidere chi debba vivere e chi debba morire …». Anche in presen­za della cosiddetta Carta dell’auto­determinazione stilata dal soggetto, magari in età giovanile e con stato d’animo diverso, se il destino degli anziani è consegnato ad altri, allora «la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia recipro­ca ». Altro che umanizzazione della morte e accompagnamento dei morenti. I segnali sociologici vanno in senso opposto. Oggi, l’80 % della gente muore negli ospedali, in un ambiente affettivamente freddo e impersonale. «Siamo di fronte – continua Giovanni Paolo II – a uno dei sintomi più allarmanti della cul­tura della morte, che avanza soprat­tutto nella società del benessere, ca­ratterizzata da una mentalità effi­cientistica secondo la quale una vita irrimediabilmente inabile non ha più valore».
Luciano Verdone, Teramo
 
La sua riflessione è interessante e utile, caro professor Verdone. Con una piccola, ma cruciale, sottolineatura aggiuntiva: nutrire e dissetare chi non è più in grado di farlo da solo non è accanimento terapeutico e negare acqua e cibo a chi può riceverli e ne ha bisogno per sopravvivere è inumano e incivile.
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