mercoledì 15 dicembre 2010
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I conti alla fine sono tornati a Silvio Berlusconi e non a Gianfranco Fini. E il risultato è chiaro. Il presidente del Consiglio ha vinto, il suo antagonista presidente della Camera ha perso: nessun disarcionamento del premier, nessun ribaltone, nessuna crisi formalmente aperta.Tuttavia la fase critica è tutt’altro che archiviata. E, dal punto di vista dell’interesse generale, non si può certo considerare esaltante la conclusione del feroce derby giocatosi in quello che era il centrodestra trionfatore delle elezioni del 2008. Trecentoquattordici deputati e centosessantadue senatori sono bastati infatti a Berlusconi per vincere la sfida col ripudiato «co-fondatore» del Pdl, ma non bastano per governare con efficacia. Il governo ha evitato una crisi al buio, però – sul piano parlamentare – è all’osso. E quest’Italia assediata dalle precarietà (del lavoro della sua gente, delle prospettive delle sue imprese, del presente e del futuro demografico, dei conti pubblici gravati dal debito e dalla spesa improduttiva, delle entrate mortificate da un’indegna evasione fiscale, delle stesse istituzioni manomesse e non ancora riformate...) avrebbe avuto, e ha, bisogno di tutto tranne che di una pesante precarizzazione del quadro di governo.Ma soprattutto l’Italia ha più che mai bisogno di una classe politica che non offra indecoroso spettacolo di sé, che non ecciti gli spiriti bollenti e gli istinti peggiori tra i cittadini, che non dia esca agli antagonismi di ogni risma, che non incendi la polemica per cercare consensi e che non si ritrovi a raccogliere i frutti amari dei disordini e delle violenze di piazza... Purtroppo, invece, da mesi e mesi – e con particolare intensità in quest’autunno che sta per farsi inverno – abbiamo visto incubare e svilupparsi con virulenza (anche mediatica) un tale processo. E il rischio che corriamo è emerso con evidenza in una giornata come quella di ieri, segnata dal cruciale eppure insufficiente successo ottenuto dal governo e sfregiata dall’insopportabile brutalizzazione del centro di Roma da parte di gruppi minoritari eppure ingombranti per tutti.Da una situazione così, le vie d’uscita politiche possono essere due. O le elezioni anticipate (extrema ratio, non certo soluzione). O il rilancio del governo e della sua azione. Cioè il ritorno alla politica. Una politica che – come auspica anche il capo dello Stato – serva il Paese e metta insieme progetti e non risentimenti, che coltivi ambizioni grandi e durature e non mediocri e provvisori interessi, che unisca energie e, ovviamente, contrapponga visioni ma non come in una perenne ordalìa.Il presidente del Consiglio, alternando toni di sfida e segnali riflessivi, ha ribadito negli ultimi giorni che un obiettivo del partito di maggioranza relativa – amputato dalla scissione della destra finiana – è quello di ricostituire una più ampia area dei «moderati» unita anche dal riferimento alla tradizione e alle posizioni del Partito popolare europeo. Il messaggio sembrava mirato esclusivamente all’Unione di centro, ieri si è capito che è diretto al partito di Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa e Rocco Buttiglione, ma anche ad altri. E che l’attenzione al disagio che continua a emergere nel Pd non è di maniera. Una cosa così impegnativa è stata detta da Berlusconi (e confermata dal suo alleato Bossi) in un modo che definire agrodolce è forse poco, ma è stata scandita ripetutamente. Ed è difficile pensare che sia accaduto per gioco.Se fino a ieri mattina il futuro della legislatura e il ripensamento del bipolarismo italiano, dopo l’ingloriosa andata in soffitta della tentazione bipartitica, sembravano in mano agli specialisti in aritmetica, da ieri sera è chiaro che molto dipenderà da chi, a Palazzo Chigi e in varie sedi di partito, sa fare progettazione e l’equilibrio non lo cerca solo nei numeri parlamentari. È infatti inimmaginabile che novità in grado di portare a un’evoluzione e a un rinsaldamento del quadro politico possano prodursi senza che alle parole si accompagnino scelte e gesti significativi.
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