giovedì 22 settembre 2011
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Il 3 settembre scorso la popolazione di Lampedusa aveva ricevuto un premio dal Lions club di Termini Imerese per la solidarietà e l’accoglienza dimostrata in questi mesi a profughi e migranti. Non ancora il Nobel per la pace alla quale anche questo giornale ha candidato lo slancio umano e la carità cristiana di una gente accogliente e paziente, ma un primo sacrosanto riconoscimento. Il sindaco dell’isola, nel ringraziare, aveva anche lanciato un appello, ripreso da tg e giornali: «Il centro di accoglienza di Lampedusa, con oltre 700 immigrati tunisini, è una polveriera pronta a esplodere», aveva detto. Ed era quasi venti giorni fa.Da quel 3 settembre i tunisini sono quasi raddoppiati. Fino a che non è scoppiata la rivolta, il centro d’accoglienza incendiato, gli ospiti nordafricani in fuga per l’isola; e le sassaiole, e le cariche, e quelle cacce all’uomo che nascono nella esasperazione, e che trasformano anche i miti, in un accecamento di rabbia. Perché la stessa gente che ha sempre accolto profughi e migranti e naufraghi con la generosità di chi, nato su una piccola isola, conosce la terribile forza del mare, non può tollerare bande di uomini aggressivi fra le proprie strade, come è avvenuto ieri. Al punto che, per la paura, agli insegnanti si è ordinato di chiudere le porte delle scuole, con i bambini dentro.E non può essere Italia un paese in cui ci si deve barricare nelle scuole, o dove gente finora pacifica arriva a prendere un bastone, e a pensare di doversi difendere da sola. Qualcosa nel meccanismo dei rinoscimenti di status e dei rimpatri in Tunisia, nei tempi, nelle lentezze burocratiche non ha funzionato; non si è colto l’allarme – come credendo che anche gli uomini, come le leggi e le carte, possano aspettare. Ma mille uomini reclusi in attesa del loro destino, non aspettano: e il miraggio sia pure fasullo e disperato dell’Italia, e le notizie dai primi compagni rimpatriati hanno generato la rivolta, e la guerriglia in un’isola normalmente in pace.«È Italia anche questa», ha gridato il sindaco di Lampedusa davanti ai microfoni; come accade nella concitazione della piazza e nella rabbia, ha sbagliato i toni e le parole, poi se ne è scusato. Ma non si può ignorare quel suo appello accorato: «È Italia anche questa». Lembo di Italia in mezzo al Mediterraneo, in prima linea sulla frontiera della immigrazione, o della fuga da Paesi in guerra o poverissimi. Tanto più Italia quanto più crocevia di bisogni e di domande disperate; nodo rivelatore di solidarietà, umanità, ma anche di efficienza dello Stato. È difficile capire perché allarmi lanciati da tanti giorni a Lampedusa siano rimasti inascoltati, fino a lasciare degenerare la situazione. O forse invece è facile: pensando a quante volte da sempre in questo Paese certe emergenze sono rimaste ignorate, fino a quando una disgrazia o dei morti non abbiano ricordato che erano emergenze, davvero.Come se qui, da sempre, nella forma mentis di chi governa e dei burocrati che ne applicano le direttive, restasse l’idea che – come le leggi, le carte e le circolari ministeriali – gli uomini possono aspettare.Cosa che è sempre meno vera, in tempi di turbinosi cambiamenti e emergenze, come questi. Quando le Borse cadono, gli spread si impennano, il rating viene declassato, le Procure incalzano e il Governo ansima; e dunque, come si fa a ricordarsi di quella piccola isola laggiù, di quel nodo di speranze e disperazione. Di quei mille venuti dal mare, in impaziente e poi rabbiosa attesa. Dei bambini di Lampedusa, che ieri sono rimasti chiusi a scuola; della paura dei loro padri e madri – paura d’ essere stati lasciati, dall’Italia, soli.
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