domenica 12 agosto 2012
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​Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani. E mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza, alla wellness e la forma fisica, capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono tanti, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di eclissare o di allontanare dal suo orizzonte, che così si impoverisce e si intristisce. Una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra società è la prima che sta sommando queste due stoltezze. Che la nostra cultura non ami i giovani lo si vede da come li tratta nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nei partiti politici, dove i giovani sono sempre più assenti e tenuti distanti.È questo il paradosso di un mondo adulto che vorrebbe restare giovane e di giovani che non riescono a diventare adulti, determinando così una patologia sociale che complica la vita degli adulti e dei giovani. Mia madre non hai vissuto il Sessantotto, sebbene avesse 25 anni, e perché nella campagna marchigiana non esisteva ancora la gioventù. Certo esisteva l’età biologica corrispondente, i giovani si innamoravano e sognavano; ma non c’era quella sorta di categoria o gruppo sociale che oggi chiamiamo "gioventù": questa l’hanno in un certo senso inventata il rock, il Beatles e il Sessantotto. Prima con il matrimonio o con il militare si passava direttamente da ragazzi ad adulti. Quella della gioventù è stata una delle più grandi invenzioni sociali della storia, che ha cambiato società, politica, economia. Oggi però è urgente re-inventare la vita adulta, perché finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità, compresa quella alta forma di responsabilità individuale e sociale che ci si assume sposandosi. E un lavoro che arriva tardi, e che – se e quando arriva – è troppo spesso insicuro, frammentario, precario e fragile, non fa altro che alimentare artificialmente e prolungare una giovinezza oltre i suoi orizzonti biologici. Tutto ciò fa perdere al mondo dell’economia e delle istituzioni l’energia vitale e morale fondamentale che proviene dai giovani, e rende per questi accidentato e troppo rischioso quel processo e passaggio fondamentale che dallo studio dovrebbe portare, presto, al lavoro vero.Non è semplice uscire da questa trappola epocale e collettiva. Ma dobbiamo innanzitutto vederla, e poi rifletterci di più, adulti e giovani assieme, e a tutti i livelli. Certamente occorre ripensare, e profondamente, il significato del lavoro e del lavorare per un giovane oggi. Ci sono due tradizioni consolidate che oggi vanno cambiate. La prima è la radicata convinzione che un giovane quando sceglie di intraprendere un indirizzo di studio dovrebbe chiedersi di che cosa il mercato del lavoro ha bisogno, e quindi scegliere di conseguenza. Questa pratica di buon senso, che forse funzionava in un mondo più statico e tradizionale, sta progressivamente perdendo qualsiasi rilevanza effettiva, anche se facciamo fatica ad accorgercene, imprese e famiglie. La probabilità che esista una correlazione significativa tra la mia scelta di oggi e il mio lavoro tra 5-7 anni è sempre più bassa, per le semplici ragioni che in questo lasso di tempo cambia troppo velocemente il mondo economico, e cambio molto velocemente anch’io. Quando un amico mi chiede qual è la facoltà migliore per il proprio figlio, rispondo con sempre maggiore convinzione: «È quella che più ama e per la quale si sente portato; e se tuo figlio/a non lo sa ancora, dedicagli più tempo, ascoltalo, ascoltala, e soprattutto invitala ad ascoltarsi con più attenzione e più in profondità. E poi, qualsiasi scelta faccia, la sola cosa davvero importante è che studi bene e seriamente». Non si può scegliere di intraprendere una professione soltanto, o soprattutto, perché il mercato tra qualche anno avrà, forse, bisogno di qualcosa, e quando pensiamo e agiamo così finiamo senza volerlo per assomigliare ai servi se non agli schiavi. La ricerca genuina della propria vocazione nella vita e nel lavoro è la ricerca più importante dell’intera esistenza.È qui però che va introdotto il secondo cambiamento culturale, che completa questo primo discorso, che riguarda il rapporto che dobbiamo imparare ad avere con gli studi e con i titoli. Un consiglio che dovrebbe essere dato, soprattutto in questa età di crisi, a un neo-laureato è il seguente: «Non far diventare il titolo appena conseguito un ostacolo. Considera quanto studiato soprattutto un investimento su di te, che ti sarà utilissimo per la tua libertà e felicità, ma non farlo diventare una pretesa per accettare solo i lavori che tu consideri adeguati. Se riesci a trovare subito il lavoro che senti come tuo e per cui hai studiato, bene; ma se non lo trovi subito accetta qualsiasi lavoro che sia utile alla società e a chi ti remunera; ma mentre lavori con serietà e impegno non smettere di coltivare le sue speranze profonde, i tuoi sogni, il tuo daimon». Il "mercato del lavoro" di domani sarà sempre meno legato ai titoli di studio e sempre più alla nostra capacità di rispondere e anticipare i bisogni e i gusti degli altri, dimostrando ai nostri interlocutori che, qui ed ora, abbiamo qualcosa di valido e utile da scambiare con loro, in rapporti di mutuo vantaggio, dignità e reciprocità.Avremo presto giardinieri umanisti, artigiani con il dottorato, imprenditori filosofi, e gli anni di studio e i titoli saranno soprattutto investimenti in libertà, opportunità e cultura, e sempre meno associati al "pezzo di carta" e al posto di lavoro. Queste trasformazioni sono molto profonde e complesse, e non dobbiamo lasciare i giovanida soli ad attraversare questo guado. Altrimenti continueremo ad amare la giovinezza, ma a rendere molto difficile il futuro e il presente dei nostri giovani.
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