venerdì 24 gennaio 2014
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Gentile direttore,
mi pare evidente che la legge elettorale in cantiere abbia come primario obiettivo l’introduzione, in nome della governabilità, di un forzoso bipolarismo (anticamera del bipartitismo) teso a estromettere dagli organismi rappresentativi le rappresentanze delle minoranze socialmente più inquiete e delle correnti culturali non ancora omologate al pensiero dominante (contrassegnato dal politicamente corretto). Forse bisognerebbe tenere presente che anche i cattolici coerenti con i propri valori corrono il rischio di fare parte delle minoranze destinate all’esclusione.
Giuseppe Ladetto, Torino
E perché mai, gentile signor Ladetto? Perché mai i «cattolici coerenti con i propri valori» dovrebbero essere «estromessi» dall’agone politico? Perché dovrebbero correre, persino più di altri, il rischio di essere addirittura esclusi dalla rappresentanza degli interessi generali (questo, checché si dica, è il compito primario di un parlamentare, a qualunque partito appartenga)? A decidere sono i cittadini-elettori... Cioè decidiamo democraticamente tutti assieme, e non decide mai solo “qualcun altro”. La storia e anche la mia esperienza di cronista (nell’ultima e triste fase della Prima Repubblica e nel furioso tempo della cosiddetta Seconda Repubblica) mi portano a dire che le regole elettorali messe a disposizione o imposte ai cittadini – quali che esse siano – sortiscono effetti che non sono mai del tutto prevedibili e che spesso non fanno felici coloro che presumono di avvantaggiarsene. Perché la libertà di voto è una cosa seria, e in Italia questa libertà c’è per quanto, sinora, mortificata da meccanismi che hanno dimezzato la reale possibilità di scelta degli elettori (che da due decenni, tra candidati nominati, paracadutati e cooptati, non possono più decidere davvero chi li rappresenterà in Parlamento). Per questo, al punto in cui siamo, dico e ripeto che se – per sventurata ipotesi – le regole non cambiassero neanche stavolta saranno proprio quelle vecchie e brutte regole a cambiare – mandandoli a casa – i renitenti legislatori, i riformatori parolai e i leader inconcludenti. Del resto, un tale sonoro benservito – anzi, malservito – è già stato dato, negli ultimi tre anni, a interi pezzi della nomenklatura politico-parlamentare. Non ci vuol molto a prevedere che succederà ancora e, se necessario, ancora di più. C’è bisogno di rimettere a punto, rendere più smilza e bonificare (sanando costi esorbitanti, diseconomie, pesantezze e inefficienze) la macchina dello Stato e quella dei partiti. E di farlo in modo percepibilmente giusto agli occhi dell’opinione pubblica. C’è necessità di invertire una deriva che continua ad allontanare la gente dai Palazzi – centrali e locali – e che ha incattivito come mai prima i rapporti tra politici, burocrati e cittadini comuni. Regole (elettorali e non solo) a parte, credo che sia evidente che per stare sulla scena pubblica e per essere significativi bisogna saper fare la propria parte. E questo riguarda proprio tutti, ma i cattolici impegnati un po’ di più (a noi cristiani è stato detto, senza tanti giri di parole, che non ci è dato di essere sale sciapo...). Ma per fare bene la propria parte bisogna avere competenza, idee chiare, basi valoriali che non si sfaldano, convinzione e – soprattutto – capacità di convincere. Perché i politici e i partiti in cui essi militano sono “vivi” soltanto se sono credibili e rispettati. C’è da «immischiarsi», ci dice papa Francesco. Il che vuol dire spendersi con generosità e lucidità e, dunque, senza retropensieri fasulli e paralizzanti. C’è da immischiarsi per bene, per fare il bene comune. Senza nutrire la paura di essere “vittime” di giochi altrui. Se si diventa “vittime”, è solo perché ci si è persi tra irresolutezze, inconcludenze e la preoccupazione di chiudersi in trincea. Ma i cattolici, non mi stanco di ricordarlo, sono davvero tali quando – in questo mondo, come in questo nostro Paese – si ricordano di essere fatti per il campo aperto.
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