mercoledì 24 settembre 2014
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​Fra le tante domande lasciate aperte dall’esito del referendum scozzese, non è priva di rilievo quella che riguarda l’utilità del regionalismo come strumento per valorizzare, ma anche per inquadrare, identità collettive plurali a base territoriale. I nazionalisti scozzesi ieri, così come gli indipendentisti catalani domani, scommettono sulla trasformazione di identità regionali in identità nazionali indipendenti e richiedono che la loro “nazionalità” si faccia pienamente nazione e si doti di uno Stato. In quelle due esperienze (ma il discorso potrebbe allargarsi ai Paesi Baschi, alle Fiandre, forse alla Corsica e porre questioni anche ad alcune terre italiche) la creazione di istituzioni regionali (in Catalogna nel 1977, in Scozia nel 1998), a lungo ostacolate dai governi precedenti (il regime franchista in Spagna, i conservatori britannici nel Regno Unito) con l’argomento che esse avrebbero costituito l’anticamera del secessionismo, sono state effettivamente utilizzate a tal fine, sia pure senza successo finale, almeno ad Edimburgo, mentre resta del tutto aperta la grande partita catalana.Allo stato delle cose, tuttavia, il referendum scozzese ha smentito l’ipotesi dell’inconciliabilità fra identità regionale forte e permanenza all’interno dello Stato di appartenenza. E si può allora partire da quel risultato per porre due macro-questioni. La prima: ha ancora senso ragionare della creazione di nuovi Stati all’interno dell’Unione Europea, che comporta una radicale ridefinizione della statualità, mettendo in discussione quelle pretese di esclusività che segnavano il modo di pensare in Europa fra la metà del XIX secolo e gli anni novanta del XX? La seconda: non può essere proprio il regionalismo a costituire il punto di riferimento per le identità che non sono del tutto assorbibili nei grandi Stati nazionali dell’Europa occidentale, che si sono – tutti, compresa la Francia centralista e giacobina – costruiti assorbendo identità minori?Il regionalismo è a nostro avviso la risposta a entrambi i quesiti. Negli ultimi anni esso è apparso soprattutto un costo: in Italia, ma anche in molte Regioni spagnole con minore sentimento autonomistico e persino in Francia, ove Hollande ha avviato la riscrittura della mappa territoriale, riducendo le Regioni da 20 a 12. Tuttavia è proprio al nostro Paese che va diretto il ragionamento. Ed qui che si può in qualche modo dire del referendum scozzese: de te fabula narratur, questa storia parla di te.Certo, nessun paragone è possibile fra la Scozia, la cui identità ha radici profonde dal punto di vista storico, culturale e persino linguistico e la Padania, che è stata la pura creazione del programma di un partito politico, che non è mai riuscito a essere maggioritario nemmeno in quei territori. Ma se la Padania è un’invenzione che catalizza soprattutto frustrazioni di carattere economico e che ha un valore identitario principalmente negativo (contro Roma, contro gli “stranieri”, ecc.), non sono affatto un’astrazione le identità regionali, soprattutto nel nord Italia. E quelle identità – piemontese, ligure, lombarda, emiliana, veneta – talora corrispondenti ad antichi Stati, sono perfettamente compatibili con l’identità italiana ed europea. Anzi, ne sono una precondizione, a patto che queste non siano presentate e percepite come esclusive ed assorbenti, ma restino rispettose delle pluralità, anzitutto territoriali. La sussidiarietà verticale resta un’idea che può ordinare lealtà diverse: ad esempio, al Piemonte, all’Italia e all’Europa, oltre all’amore per la propria città e all’apertura al mondo.È evidente che i confini in cui praticamente si dovranno estendere i poteri legislativi e amministrativi di ciascuno dei livelli di governo che corrispondono alle diverse identità potranno essere adeguati ai tempi e meglio coordinati, vigilando soprattutto sulla necessità di evitare la moltiplicazione di spese inutili, quanto mai necessaria in tempi di crisi.Tuttavia, la sconfitta del referendum indipendentista scozzese, resa possibile anche dalla disponibilità del governo di Londra di concedere maggiore autonomia (un passo che potrebbe essere utile anche in Spagna), insegna che il regionalismo resta un’opportunità per i grandi Stati nazionali dell’Unione Europea. Proprio perché esso è un’altra via – solo apparentemente più complessa – per costruire l’unità nazionale.Sarà bene ricordarsene quando si riprenderà in mano alla Camera dei deputati la riforma del Senato e del Titolo V: non tanto per cambiare questa o quella formuletta costituzionale, ma per ripensare a fondo il ruolo delle Regioni, dando a questi enti quel “volto” che spesso è loro mancato e abbandonando l’ubriacatura antiregionalista tuttora sostenuta da grandi apparati amministrativi e giurisdizionali dello Stato romanocentrico, il cui “esclusivismo” costituisce il vero pericolo per l’unità nazionale.
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