domenica 18 marzo 2012
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E ora che le celebrazioni dei 150 anni sono fini­te, ora che siamo stati rinsaldati nella memo­ria del Risorgimento e delle fatiche, degli errori e del sangue che ci hanno reso nazione, resta forse una cosa da chiedersi: nell’oggi, cos’è, e in cosa ri­siede, un sentimento di identità degli italiani? Ed esiste poi davvero, o siamo ormai solo una delle tante celle di un infinito impero globalizzato? Una risposta potrebbe riempire un trattato. Oppu­re, stare nella semplice percezione che ognuno di noi ha del suo Paese. Quella che ci porteremmo in mente se partissimo per un luogo lontano in cui ri­marremo a lungo, e forse senza tornare. Allora nel­la memoria sbiadirebbero i titoli dei giornali che raccontano l’Italia solo come patria di evasori e cor­rotti, una grande “pizza connection” da cui fuggi­re. Allora sapremmo che, certo, tutto questo esiste, eppure l’Italia è ben altro, molto altro che questo. Che cosa, allora? Di Italie ce ne sono mille. Poche terre sono così eterogenee, tanto che cinquanta chilometri già bastano a modificare il paesaggio, l’accento, e il ripieno dei ravioli. L’Italia, dovrem­mo spiegare a uno straniero, è un microcosmo di tanti mondi messi vicini, l’uno in fila all’altro; ma così lunga, dal Bianco alla Puglia, che quei mondi finiscono per sembrare stranieri. L’aria della Sici­lia, d’estate, ha l’inconfondibile fiato dell’Africa; ma i bambini delle Dolomiti hanno i capelli bion­do-rossi delle popolazioni germaniche. Come si tiene insieme questa galassia così difforme, che cosa la unisce più che non la dividano abitudini, tradizioni, interessi? Centocinquant’anni sarebbero pochi, se anterior­mente non ci fosse qualcosa di più forte a legarci insieme. Centocinquant’anni fa, dopo secoli di do­mini stranieri, qualcosa tuttavia ha permesso che gli italiani desiderassero l’Italia; qualcosa che esi­steva già prima. È ciò a cui Benedetto XVI allude­va nella sua lettera di un anno fa al presidente Na­politano, in occasione dell’anniversario: lo svilup­po di identità nazionale sfociato nell’unità è nato prima, ricordava, e il cristianesimo ha contribuito in modo fondamentale a formarlo. In questa memoria sta il cuore dell’Italia, il suo re­spiro, uguale a nessuno. Quei mondi differenti e troppo vicini, quei mille borghi gelosi o prepoten­ti, quella costellazione di dialetti, come potevano mai diventare nazione? Dov’era un comune de­nominatore, se non nella croce, alta su tutti i cam­panili? Nella fede, della cui rilevanza nella vita pub­blica testimoniano le nostre splendide chiese e cat­tedrali. Perché c’erano re e principi stranieri, e di­visioni infinite; però l’humus, la terra, era cristia­na. Altro segno di questa impronta è l’arte, gene­rosa come una benedizione. Giotto, Michelange­lo, Raffaello, Caravaggio si muovevano e lasciava­no le loro opere scavalcando ogni piccolo confine; come superandoli tutti grazie a un salvacondotto, a un “parlare cristiano” di cui erano gli straordi­nari interpreti. E forse il marchio della prima identità di questo no­stro Paese sta proprio nella bellezza; nella stupe­facente quantità di bellezza, naturale e artistica, e­largita sul lungo, disomogeneo, bizzoso stivale. E la bellezza è segno, e promessa: dice che non sia­mo fatti per il nulla, ma siamo dentro il disegno di un Creatore e lo continuiamo. La silenziosa pro­messa scritta per le strade, nelle chiese e negli o­rizzonti italiani, ha costruito nei secoli un popolo. Nella certezza di un destino buono lo ha fatto a­michevole e generoso; nella ricchezza della natu­ra, accogliente.L’identità italiana, dunque? La cronaca amara che in queste ore torna a parlarci di barconi che solca­no il Mediterraneo carichi di una speranza e che si fa tragicamente anche rantolo di morte, mi aiu­ta a rivedere le facce degli uomini della Capitane­ria di porto di Lampedusa, alla ricerca di una bar­ca di migranti alla deriva. Erano padri di famiglia, nel portafogli le foto dei figli. Avrebbero apprezza­to un piatto di spaghetti, e vino buono, ma in quel mezzogiorno bollente saltarono il pasto senza ac­corgersene, mentre la motovedetta filava verso Sud – cercando. Tornarono in porto carichi di cento migranti sfiniti. (Mi è rimasto negli occhi uno di lo­ro, che cercava di far sorridere un bambino). Poi, al molo se ne sono andati verso casa. A vedere, for­se urlando contro l’arbitro per un rigore negato, la partita; a seguire con lo sguardo una bella donna per strada. Non santi, affatto. Uomini, e peccato­ri. Però, come cercavano – e ancora cercano – nel­la immensità desertica del Mediterraneo quella barca dispersa. Come si allungavano, le loro brac­cia abbronzate, per tirar su i naufraghi. L’Italia, è anche questa, e viene da lontano. Oc­corre ricordarlo, mentre la “nostra” barca con pe­na e fatica sembra tuttavia raddrizzarsi, e ancora facciamo fatica a sperare: l’Italia, la vera, è soprat­tutto questa.
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