mercoledì 3 aprile 2013
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​In un tempo in cui «abbiamo bisogno di testimoni più che di maestri, Giovanni Paolo II», con «la coerenza» di un vero «uomo di Dio», ha vissuto «fino alla fine, essendo proprio questo: un testimone fedele». Era il 4 aprile del 2005 quando l’allora cardinale Jorge Bergoglio pronunciava queste parole, celebrando a Buenos Aires una messa in memoria di Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla era morto da due giorni, a Roma il serpente di folla che avrebbe finito per assediare i borghi attorno al Vaticano si andava facendo di ora in ora più denso e impenetrabile, e tutto il mondo, e non solo quello dei credenti, si chiedeva: e ora? Giorni tristi, commossi, e quella domanda, sempre uguale, ripetuta ancora e ancora, senza risposta. Il mondo si sentiva orfano. Tutta la Chiesa si sentiva orfana, consapevole del peso immane destinato a gravare sulle spalle di chi il Conclave avrebbe chiamato a succedere a Karol Wojtyla. E ora? E dall’altra parte del mondo, anzi «+corsivo»quasi alla fine del mondo«+tondo» – in una frase semplice e immediata un cardinale, sconosciuto ai più, riassumeva l’essenza di tutto, cogliendo in due sostantivi – coerenza, testimone – e un aggettivo – fedele – il senso di quasi ventisette anni di pontificato. Quel senso che lo stesso Giovanni Paolo II aveva distillato nella chiusura del breve, affaticato discorso del Venerdì Santo del 2003, il suo ultimo pronunciato a braccio, lasciandocelo quasi come un testamento spirituale: «Auguro a tutti voi, carissimi fratelli e sorelle, di vivere questo “Triduum Sacrum”... di viverlo sempre più profondamente. E anche di testimoniarlo».Otto anni dopo quell’omelia a Buenos Aires, e dopo gli otto anni di Benedetto XVI, quel cardinale argentino è diventato Papa Francesco. A quel modo semplice, immediato, di esprimere concetti complessi ci stiamo abituando. Così anche al suo stile, diretto e contagioso, capace di comunicare subito quella gioia di essere cristiani che fa da sfondo a tutto. Non c’è da meravigliarsi, allora, se in solo tre settimane Francesco abbia conquistato tutti, e nemmeno dei paragoni coi suoi predecessori più immediati che continuano a rincorrersi; è un esercizio umanissimo, per certi versi, che tra l’altro rende accademico e, in definitiva, vuoto, l’eccesso opposto di chi, per disarmare quei paragoni, non si stanca di ricordare – pur correttamente, per carità – che per un credente non conta chi è il Papa, ma solo il Papa.La realtà, più semplicemente – come ci insegna proprio Francesco – è che se, appunto, è umanissimo fare paragoni, non si può però non vederli e mantenerli dentro la luce dei carismi personali di ciascuno, nella fedeltà a quelle chiavi di coerenza e testimonianza che costituiscono l’essenziale del vivere da cristiani. Solo così, guardando in successione a Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI e a Francesco, si può cogliere in pieno non solo la continuità che lega i tre pontefici, ma anche quanto la ricchezza e la diversità dei carismi è capace di plasmare il volto della Chiesa. E così il Papa che era stato capace di abbattere ogni muro doveva impartire l’ultima benedizione senza più voce, senza più forze, senza niente; così il Papa che aveva lottato per la luce della fede e della ragione, e smontato le «sporcizie» nella Chiesa doveva rinunciare al mandato dimostrando che il potere è servizio e solo Cristo conta; così Francesco, oggi, può, e deve, tornare a vestire al cospetto del mondo i poveri calzari della Chiesa che vive in mezzo alla gente. Coerenza. E testimonianza. Fedele. Questa è la Chiesa, ininterrotta tradizione, eppure capace di rinnovarsi ogni volta.
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