martedì 24 agosto 2010
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La Fiat, dunque, ha scelto di mantenere la linea dura: i tre operai dello stabilimento di Melfi – prima licenziati e poi reintegrati dal giudice – ieri sono potuti sì entrare in fabbrica, ma non riprendere la normale attività lavorativa. Per loro una sorta di “confino” in una saletta sindacale, distante dalle linee produttive. Il messaggio sottinteso è ancora una volta la divisione tra chi è “dentro” il progetto Fabbrica Italia e chi se ne chiama “fuori”: contestando gli accordi, scioperando, bloccando la produzione.La Fiat, rifiutandosi di far lavorare i tre dipendenti, ha sbagliato. Volutamente, coscientemente. Pur sapendo che rispettare la sentenza di reintegro solo formalmente, ma non nella sostanza, la espone a nuove denunce. Di più, potrebbe pregiudicare la serenità di giudizio in secondo grado e in sede penale, quando il tribunale di Melfi sarà chiamato a riesaminare il caso del presunto blocco volontario della produzione. Inoltre, costringe anche i sindacati che si sono spesi per il dialogo a fare appello per i licenziati. E soprattutto rischia di alienare quel consenso finora raccolto nell’opinione pubblica, con gesti che finiscono per alimentare anziché spezzare la spirale di atti e ritorsioni, dando fiato alle “vuvuzelas” della Fiom. Perché allora insistere in una strategia così rischiosa, dagli esiti incerti?L’impressione è che il Lingotto, dopo il consenso a metà raccolto a Pomigliano, voglia arrivare a un punto finale di svolta, chiaro, netto. Intenda forzare sino all’estremo, a Melfi come per il contratto nazionale dei metalmeccanici, convinto che “chi non è con noi è contro di noi”. Chi non è per un nuovo modello produttivo, in linea con le esigenze del mercato globalizzato, è contro la Fiat e la stessa produzione di auto in Italia. Dopo la faticosa ricerca del consenso, così, oggi l’amministratore delegato Sergio Marchionne vuol dividere: dentro o fuori, con noi o senza di noi, in Italia o all’estero, uno o zero come nel linguaggio binario, che non ammette terze vie né semplici mediazioni. È a partire da qui, allora, che occorre riprendere a ragionare. Anche al di là dei torti e delle ragioni che stanno in entrambi i fronti. Perché, sul caso specifico, a decidere saranno comunque i diversi gradi di giudizio dei tribunali. In democrazia ci si affida alla legge e alla giustizia, garanzia tanto per i singoli quanto per le imprese. Poi, però, non ci si può mai dimenticare che, se si vuole progredire e costruire iniziative solide, a beneficio di tutti, occorre saper aggregare persone ed energie intorno a un obiettivo condiviso, attraverso il confronto, la negoziazione, il coinvolgimento pieno dei soggetti.Perciò oggi servirebbe una “mossa del cavallo”. La capacità di fare tre passi avanti, scartando di lato rispetto agli ostacoli, per rilanciare il gioco. La discussione sul contratto del settore auto può essere l’occasione per uscire dalle secche giudiziarie e dalla sterile contrapposizione a due, per tornare a confrontarsi con tutti i soggetti di rappresentanza sul merito del futuro produttivo nel nostro Paese. Bonanni per la Cisl e Angeletti per la Uil hanno da tempo dimostrato di essere disponibili a esercitare per intero un’intelligente flessibilità negoziale. Indicando la strada della partecipazione come via per coinvolgere e premiare il maggiore impegno dei lavoratori. Una direzione suggerita, in maniera assai significativa, anche dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. A Sergio Marchionne, allora, tocca fare un passo per dimostrare come Fabbrica Italia non sia semplicemente un progetto imposto, ma una scelta di cambiamento reale sul quale aggregare le forze vive del Paese.
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