domenica 10 ottobre 2010
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Caro direttore,nella mia brevissima rassegna mattutina dei titoli principali di vari quotidiani online, Avvenire non manca mai. E ciò, nonostante da qualche anno io abbia cessato di frequentare la Chiesa cattolica, nutrendo un radicale dissenso su molte sue posizioni, soprattutto in tema di bioetica.Stamane leggo un titolo a caratteri cubitali che mi incuriosisce: «Consiglio d’Europa: L’obiezione di coscienza resta un diritto di libertà ». Ohibò! – mi sono chiesta – forse qualcuno voleva porlo fra parentesi, questo diritto? – (lo confesso, essendo mamma di due bimbi, ho poco tempo e mi limito spesso a leggere solo i titoli). Stavolta no, decido di approfondire la notizia. E leggo che viene salutato con esultanza il fatto che non sussista l’obbligo per l’operatore sanitario di «fornire la cura prevista, se la paziente ne ha diritto in virtù della legge, nonostante l’obiezione di coscienza». Quindi, se per ipotesi una donna sofferente per le doglie causate da un aborto tardivo (che è un vero e proprio parto) richiede l’anestesia, il medico obiettore può rifiutarsi di alleviarne le sofferenze? Sembrerebbe proprio di sì, stando a quanto leggo qui.Dalla lettura della risoluzione si evince, inoltre, che se una donna richiede un aborto terapeutico perché rischia la vita, il medico e la struttura possono rifiutarsi di procedere all’interruzione di gravidanza, anche se ciò può provocare la morte della donna stessa.Consulto un’altra fonte online e trasecolo. Vi leggo che è stato cancellato il «richiamo all’obbligo per i medici di informare i pazienti su tutte le opzioni di cura disponibili, indipendentemente dal fatto che tali informazioni possano indurre il paziente a seguire una cura a cui l’operatore sanitario obietta». Ciò significa che se io, povera tapina, sono incinta e contemporaneamente affetta da una grave malattia, il medico obiettore può arrogarsi il diritto di tacermi una cura che causerebbe direttamente la morte del bambino? Anche qui, sembrerebbe proprio di sì. Ovviamente, credo che i casi di cui sopra siano del tutto conformi al magistero cattolico.Vede, caro Direttore, coerentemente con le posizioni mie e di mio marito, non abbiamo battezzato i nostri figli. Abbiamo però sempre parlato loro di Cristo, come sappiamo e possiamo. Ho sempre ritenuto che nulla come la dimensione spirituale sia personale e mi ero sinora incessantemente ripromessa di rispettare le richieste e le sollecitazioni che fossero provenute dai miei piccoli.Due giorni fa Elisa, la mia bambina di sette anni, mi ha chiesto: «Senti, mamma, mi mandi al catechismo? Vorrei diventare ancora più amica di Gesù e conoscerlo meglio». Sino a poco tempo fa le avrei risposto con non poche esitazioni di sì, ma ora – ho pochi giorni per decidere – credo che le dirò di no. Sono incerta. Mi chiedo perché mai inserirla all’interno di un’istituzione che ritiene legittimo far morire una donna incinta e malata, se l’unica terapia possibile dovesse condurre alla soppressione diretta del bambino; né posso accettare che la stessa istituzione avalli come lecita la condotta di un medico che nega un antidolorifico a una donna in “travaglio abortivo”.Non credo, in buona sostanza, che la Chiesa cattolica sia amica delle donne e come donna forse farei meglio a tenerne lontana un’altra piccola donna: la mia meravigliosa bambina.Con i miei migliori saluti, 

Marina T., Torino

Di slancio, cara signora Marina, vorrei dirle anzitutto che aver consentito a sua figlia di «conoscere» la figura di Gesù Cristo è un gesto che dice molto di lei e suo marito e vi rende merito, se è vero – ma mi permetta di dubitarne un poco – che non siete più credenti. Forse siete in questa fase della vostra vita non praticanti, ma può accendere il desiderio di avvicinare il Signore solo chi ne ha una conoscenza interiore non sbrigativa. Proprio per questa sua sensibilità, piuttosto rara in tempi di schematismi e pregiudizi che finiscono troppo spesso con l’accecare anche belle intelligenze, non riesco a credere che lei, sulla base di qualche «fonte online», voglia veramente trarre dalla premessa di una risoluzione parlamentare, che tutela il fondamentale principio della libertà di coscienza, una casistica da scadente film dell’orrore. La stessa stima per la libertà personale che l’ha ispirata nelle scelte educative di sua figlia dovrebbe farle considerare con profonda attenzione un documento che quella libertà di coscienza onora e difende in sede europea. Nel testo approvato dall’assemblea del Consiglio d’Europa si legge, infatti, che «il diritto alla obiezione di coscienza è una componente fondamentale del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Le radicate convinzioni personali sono dunque oggetto di speciale tutela quando vengono chiamate a confrontarsi con la vita e la morte. E se fosse stato scritto e votato altrimenti, ci sarebbe stato da preoccuparsi seriamente. Detto questo, veniamo ai quesiti che lei pone e che offrono una casistica estrema un po’ capziosa nella quale insieme alla coscienza è in gioco l’etica medica. Nello specifico, all’aborto tardivo l’anestesista obiettore non avrà ovviamente partecipato sin dall’inizio, ma di fronte alla sofferenza insostenibile della paziente non può in scienza e coscienza omettere il proprio soccorso, se è il solo a poter intervenire. La donna a rischio immediato di vita qualora non abortisse pone, invece, il medico obiettore di fronte al dovere di salvarla, prodigandosi per mettere al sicuro anche il bambino, e sempre che non vi sia alcun altro medico non obiettore in grado di provvedere subito (cioè senza che l’attesa provochi l’irreparabile). Infine, la cancellazione dal testo dell’obbligo di informare su cure potenzialmente abortive tutela l’obiezione di coscienza, ma di certo non limita la libertà della donna di rivolgersi ad altri medici favorevoli all’aborto. La possibilità prevista da un ordinamento di ricorrere, a determinate condizioni di legge, all’aborto non può comportare la costrizione di cooperare a un atto che un sanitario (in Italia circa il 70% dei ginecologi) sa essere a tutti gli effetti un omicidio. Naturalmente questo non significa che un medico possa far finta di nulla di fronte a una vita in pericolo o anche solo alla sofferenza acuta di una paziente. La coscienza, la retta coscienza, protegge tutto e tutti. Ho cercato di essere semplice e chiaro. Come semplice e chiaro è lo stesso giuramento di Ippocrate che – da ben prima del magistero della Chiesa – vieta ai medici di praticare l’aborto (anche se oggi questo passaggio cruciale è del tutto censurato). E, in ogni caso, l’obiezione di coscienza non può essere limitata o negata in nome di un supposto “diritto ad abortire”, che neppure la legge 194 si spinge a formalizzare nello stabilire le condizioni (troppo spesso aggirate e disattese) che rendono purtroppo legale il ricorso al dramma dell’interruzione di gravidanza. La Chiesa oggi è voce limpida e forte che parla di Dio e difende, con altre voci anche laiche, ogni essere umano, in ogni momento e in ogni condizione. Dunque anche il concepito: debole per eccellenza in una società mercantile e spesso spietata, ma proprio perché vita umana, unica e irripetibile, meritevole di accoglienza e rispetto pieni. Quanto alla Chiesa e alle donne, vorrei suggerirle di rileggere (anche online) le splendide riflessioni dedicate da Giovanni Paolo II al «genio femminile» e la lettera «sulla collaborazione tra l’uomo e la donna nella Chiesa e nel mondo» che l’allora cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI, scrisse a tutti i vescovi. E prima di salutarla, mi permetto di dirle: provi a pensare a questo amore smisurato per la persona, per ognuno di noi, chiamato con il proprio nome di figlio, e sia felice di accompagnare in Chiesa la sua bambina che le chiede di «conoscere» ancora meglio Gesù. Lei l’ha data alla luce con amore, cara signora Marina. E la vita, dono di Dio, ci restituisce, in modo sempre sorprendente, ciò che diamo.
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