Regioni, governo e misure anticovid: responsabilità e trasparenza
venerdì 6 novembre 2020

Chissà di cosa avranno parlato, lunedì e martedì, i presidenti delle Regioni in videoconferenza con i rappresentanti del Governo. Forse dell’ottobre appena concluso, il più caldo di sempre, o più probabilmente delle partite di domenica. Devono essersi dimenticati, invece, di discutere dei criteri sanitari e dei dati in base ai quali i diversi territori sono stati poi classificati in tre fasce per l’applicazione di chiusure graduali di attività. Non devono aver neppure sfiorato l’argomento, altrimenti non sarebbero caduti dal pero come invece è avvenuto per molti di loro tra mercoledì sera e giovedì mattina.

Ieri, infatti – in particolare in Regioni fuori rosse di Covid, ma dentro blu per la guida di centrodestra – è stato tutto un coro di "io non sapevo, io non capisco, io non volevo" per contestare il lockdown imposto dal Ministero della Salute. Come se non fossero le Regioni stesse a comunicare i dati dei contagi, della situazione negli ospedali e di tutti i 21 indicatori che vengono analizzati dalla cabina di regia a livello nazionale. Come se di quest’ultima cabina non facessero parte 3 rappresentanti delle Regioni stesse (uno proprio dalla Lombardia). Come se la conferenza Stato-Regioni non fosse stata protagonista di tutto il piano pandemico.

E neppure vale l’obiezione che il Cts e il Governo abbiano basato le loro valutazioni su «dati vecchi di 10 giorni», come hanno ripetuto gli amministratori della Lombardia. Anzitutto, perché le analisi vengono effettuate su tendenze almeno settimanali. E in secondo luogo, perché negli ultimi giorni nessuno ha notato dei significativi miglioramenti della situazione in Lombardia e in particolare a Milano, ma al contrario si sono susseguiti allarmi sempre più alti e gravi da parte di medici, strutture ospedaliere e responsabili delle Ats che hanno confessato di aver completamente perso il controllo della situazione e dei tracciamenti.

O come se la Calabria – che effettivamente non ha un numero esorbitante di contagiati, e che ha provveduto a tagliare quello dei malati escludendo all’ultimo secondo i "ventilati" dai conteggi della terapia intensiva – non avesse però la percezione dello stato disastroso in cui si trova il suo sistema sanitario, commissariato da anni, con Asl azzerate per inefficienze, malversazioni e infiltrazioni della ’ndrangheta (una condizione peraltro in parte condivisa con altre Regioni meridionali ora in zona gialla, ma già a rischio di allarme rosso...).

Dunque, per cortesia, almeno si eviti di prendere in giro i cittadini – e in particolare gli imprenditori grandi e piccoli che stanno soffrendo di più per la serrata delle attività – dicendosi stupiti per le scelte del Governo sul lockdown.

Tanto più da parte di chi – Lombardia ancora in testa – ha per settimane chiesto che fosse il governo nazionale, e non le singole Regioni, ad assumersi la responsabilità di una scelta netta. In verità, speravano in un "liberi tutti" collettivo o in una altrettanto generale chiusura che non facesse differenze di territori, una chiusura "morbida", col coprifuoco alle 23 come se bastasse andare a letto presto per fermare assembramenti e contagi.

Perché ciò che più temono molti governatori non è tanto il lockdown in sé, quanto il marchio di Regione a massimo contagio o a rischio sanitario. Percepiscono l’attribuzione della "zona rossa" come una scarlatta C di Covid appuntata sul petto. E così, quelle stesse Regioni che da anni invocano il federalismo e una maggiore autonomia sono le prime a non voler decidere da sole misure restrittive che non siano appena simboliche. Perché queste hanno un costo monetario, sociale e politico che loro non vogliono assumersi, una responsabilità che in barba a tutte le velleità autonomiste non intendono intestarsi (e infatti chi l’autonomia l’ha già più ampia, come la Provincia di Bolzano, è stata lesta a riallinearsi e coprirsi dietro le norme nazionali).

E invece proprio responsabilità è il concetto chiave per affrontare in maniera corretta una crisi pandemica come quella che stiamo vivendo. Non a caso richiamato più e più volte dal presidente della Repubblica assieme a un accorato invito all’unità, alla necessità di un’azione concorde tra le diverse istituzioni. Il governo questa responsabilità se l’è assunta.

Perfino troppo, hanno notato alcuni giuristi, secondo cui i ripetuti Dpcm e da ultimo le ordinanze del Ministero della Salute sono sul filo, e forse oltre, della costituzionalità. Ma si è trattato evidentemente di assolvere a un ruolo obbligato e a farlo nei modi realisticamente possibili ed efficaci in una situazione inedita per tutti. Al governo sono certamente da addebitare alcuni ritardi e diverse inefficienze, ma non si può dire che non si sia assunto la responsabilità di agire.

Manca un ultimo passaggio, però, perché questa grande responsabilità possa essere ancora esercitata in pienezza non solo formale di legalità, ma anche di maggiore accettabilità sociale: una totale trasparenza dei processi decisionali e un libero accesso ai dati che ne costituiscono la base. Oggi il ministro della salute sarà alla Camera per riferire delle importanti decisioni di questi giorni. È l’occasione giusta non solo per fare chiarezza politica, ma soprattutto per mettere a disposizione gli strumenti di comprensione e valutazione delle scelte compiute. Non è tempo di verbali secretati, ma di open data, di dati aperti e accessibili a tutti gli studiosi per la ricerca, la valutazione, anche la divulgazione per una migliore presa di coscienza dei cittadini. Perché nessuno possa dire "io non sapevo, io non capisco, io non volevo", e tutti essere davvero responsabili come la situazione richiede.

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