giovedì 6 febbraio 2014
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Il danno, secondo il puntiglioso Financial Times, ammonterebbe complessivamente a 234 miliardi di euro. Una somma monstre, o più esattamente una gigantesca omissione, un’elefantiaca sottovalutazione delle nostre risorse nazionali. Il condizionale è d’obbligo, visto che con il passare delle ore l’eco dell’istruttoria aperta dal Procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio nei confronti delle più rinomate agenzie internazionali di rating – Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch – si è andata via via smorzando, fino a rimpicciolirsi (a cominciare dall’entità del danno presunto), limitandosi a «un’inchiesta giudiziaria contabile contro le agenzie di rating per il declassamento dell’Italia. Indagine che non è ancora approdata a una decisione conclusiva».In altre parole, la Corte reputa che nel declassare il debito italiano – la ghigliottina delle tre sorelle del rating si è abbattuta in quattro tranche, il 1 luglio 2011, il 24 maggio 2011, il 5 dicembre 2011 e 13 gennaio 2012 – Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch avrebbero colpevolmente omesso di considerare «l’alto valore del patrimonio storico, culturale e artistico del nostro Paese che universalmente riconosciuto rappresenta la base della sua forza economica». Cosa che sicuramente è vera ed altrettanto sicuramente non fa parte dei criteri contabili con cui le tre grandi società – società private, ricordiamolo, e di proprietà di banche d’affari e Fondi e quindi tutt’altro che scevre da potenziali conflitti d’interesse (e non a caso dal presidente della Bce Draghi al ministro dell’Economia Saccomanni giungono periodiche raccomandazioni a non prenderle eccessivamente sul serio) – esaminano e soppesano debiti sovrani, bilanci, stati patrimoniali, trasparenza e stato di solvenza di banche ed enti di ogni genere.Il Financial Times, diciamolo, ci prende un po’ in giro, riportando il commento di Standard & Poor’s sull’istruttoria: frivolous and without merit, "frivola e priva di valore", e chiamando in causa la Dolce Vita come presunto asset (inteso come cespite) del patrimonio nazionale italiano.Al di là di questa schermaglia – che peraltro segue l’inchiesta già avviata dalla Procura di Trani nei confronti di S&P e Fitch per manipolazione del mercato – il tema è a suo modo avvincente. Perché il patrimonio artistico italiano è davvero un cespite di immenso valore, a prescindere dal fatto che possa essere venduto o valutato sul mercato. Non lo diciamo solo noi, citiamo, fra le tante, una valutazione di PricewaterhouseCoopers, che con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti censiti dall’Unesco riconosce all’Italia il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale e al tempo stesso il meno valorizzato. E qui sta la trappola nella quale fatalmente ci infileremmo se pretendessimo che venisse valutato con gli stessi criteri del debito sovrano o di un istituto di credito. Il confronto infatti è impietoso. Gli Stati Uniti con meno della metà delle nostre risorse culturali e artistiche hanno un ritorno commerciale 16 (sedici...) volte superiore a quello italiano, Francia e Gran Bretagna da 5 a 7 volte, i ricavi dei bookshop di tutti i musei italiani messi insieme non raggiungono il 40% di quello del solo Louvre o del Metropolitan Museum di New York.Che il patrimonio artistico italiano sia dunque ampiamente sottovalutato non lascia dubbi. Ma a deprezzarlo non sono le agenzie di rating, ma noi stessi, la nostra incuria, le nostre politiche culturali. E stiamo molto attenti ad infilare musei, gallerie e siti archeologici sotto le forche caudine delle tre sorelle del rating: basterebbe la sola Pompei a sprofondarci nel più avvilente dei downgrade. Altro che debito pubblico.
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