Ragioniamo nel merito
mercoledì 21 dicembre 2022

La domanda, alla luce della circolare con cui il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha ribadito alle scuole il divieto di usare lo smartphone durante le lezioni, è se l’indicazione riuscirà a essere rispettata. Sì, perché in realtà lo stop al cellulare in classe era già previsto da una direttiva del 2007 dell’allora ministro Giuseppe Fioroni, e che tuttavia la prassi ha visto disattesa.

Non perché le scuole non abbiano a cuore il problema o non siano state in grado di emanare regolamenti, ma perché la rivoluzione che lo smartphone ha portato nelle nostre vite e soprattutto in quelle delle generazioni più giovani è qualcosa di così grande e complesso da sfuggire facilmente ai tentativi di restrizione.

Chiariamo, la decisione non può che essere appoggiata e condivisa, anche perché non è un divieto tout-court, ma lascia aperta la possibilità di usare lo smartphone per la didattica, dunque riconoscendo in parte il valore di quel confronto che aveva portato nel 2018 al “decalogo” della ministra Valeria Fedeli, per l’uso consapevole di uno strumento pervasivo quanto ormai fondamentale. Il punto, semmai, è evitare di cadere nella tipica contrapposizione on-off, e capire quando, dove e in che modo educare, dialogando, prima che un rischio possibile diventi un danno irreversibile.

Dire smartphone è dire tutto e niente, e da questo si dovrebbe partire, riconoscendo che nel momento in cui in una scuola ci si chiede se fare o no lezione in presenza dello smartphone, oppure si ragiona sull’abilità degli studenti nel sapersi gestire, forse stiamo parlando di una zona protetta, una Ztl in cui la preoccupazione educativa alla base è già più o meno riuscita a produrre qualche effetto. Il problema è dove si ricevono telefonate o notifiche durante le lezioni, si ascolta musica dagli auricolari nascosti tra i capelli, si filmano gli insegnanti o i compagni, si chatta, e sono manifeste dipendenze o problematiche riconducibili anche (ma non solo) a un oggetto capace di catalizzare il disagio e far sintesi di una sconfitta.

E se questo avviene, non è perché la scuola ha mancato o non ha proibito, ma perché i buoi, come si diceva prima dell’era digitale, sono scappati da un po’. Così come gli errori che facciamo convergere per pigrizia in uno strumento che racchiude tutto il bene e il male possibile, non sono riconducibili a un solo soggetto, ma a una comunità. Nell’evoluzione dei problemi giovanili, quello che si sperimenta oggi è l’eventualità che una cosa potenzialmente utile diventi realmente dannosa, accentuando i limiti di un contesto di povertà culturale.

Tonnellate di studi scientifici dimostrano che un uso intenso di schermi e smartphone sin da piccoli e prima di una certa età, a causa delle dinamiche che si sviluppano nei social network, con le notifiche, i meccanismi studiati per dare un senso di gratificazione immediata mentre ci si intrattiene o si gioca, e via dicendo, possono portare a generare dipendenza, ritardi cognitivi, problemi del linguaggio, nell’attenzione e nella capacità di concentrarsi. Qualcosa, oltretutto, cui diventa difficile porre rimedio “dopo”, in particolare se il contesto è svantaggiato. Per questo la vera riflessione che si dovrebbe fare non è tanto sull’opportunità – legittima e benvenuta – di vietare il cellulare nelle ore di lezione per i ragazzi e le ragazze che hanno la facoltà e la libertà di scegliere, ma incominciare a pensare a come educare tutti “prima” che sia troppo tardi.

È qui che il ruolo della scuola può diventare fondamentale, ad esempio coinvolgendo sin dalla primaria i genitori e gli insegnanti con proposte che li orientino a conoscere i rischi di un regalo fatto troppo presto, offrendo occasioni per capire la differenza tra gli strumenti, i tempi e i modi di impiego. In questo senso, lo smartphone può diventare il pretesto, l’occasione per avviare un percorso educativo molto più ampio, sul territorio e sul campo, a livello di comunità, imparando a prendersi cura a vicenda, tra famiglie, pensando al bene delle giovani generazioni. Un “no” non è solo un divieto, può valere molto, se il “merito” non diventa la scusa per proibire e poi lasciare che vada come vada, vincano i migliori o i più fortunati.

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