giovedì 9 maggio 2013
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Avviso agli euroscettici, ai secessionisti e a co­loro che si credono mi­gliori perché ritengono di ap­partenere a ceppi etnici me­glio selezionati e meritevoli: dall’Estremadura a Rodi, dalle Isole Shetland al Golfo di Ta­ranto gli europei si rivelano essenzialmente ri­conducibili a un’unica grande famiglia vissuta più o meno mille anni fa, e pur differenzian­dosi fra loro con il passare delle generazioni ri­mangono strettamente legati a quella comune eredità biologica. Lo attesta – prove del Dna alla mano – uno studio dell’università di Da­vis, in California, dimostrando che pur nella forte differenziazione fra un carattere e l’altro (i biondi dagli occhi chiari, per esempio, ri­spetto ai bruni dagli occhi scuri), la ricombi­nazione dell’informazione genetica che avvie­ne per meiosi non invalida la comune apparte­nenza a un medesimo gruppo di antenati.
La scoperta (non nuovissima, peraltro) farà felici le moltitudini di emigrati che da generazioni sono separati dalla terra d’origine e insieme farà storcere il naso agli etnocentristi che re­clamano il proprio primato. Perché non è il ceppo etnico, la razza, il genoma a fare un po­polo, ma innanzitutto la lingua e la cultura. I greci chiamavano koinè (cioè comune) quel dialetto in uso ai tempi di Alessandro Magno che rapidamente si estese in tutto il Mediterra­neo e divenne lingua franca anche nel mondo latino: il Nuovo Testamento, la Bibbia cristiana sono stati diffusi inizialmente nel greco ales­sandrino che quasi tutti all’epoca potevano comprendere, scavalcando razze, popoli, ge­nealogie. Nondimeno i greci appellavano co­me bárbaroi (letteralmente: balbuzienti) gli stranieri che 'balbettavano' lingue diverse dalla koinè. Non era l’aspetto né l’appartenen­za biologica, ma la lingua a marcare le diffe­renze, e semmai – per estensione – 'barbaro' era considerato (soprattutto a Roma) colui che era privo di leggi scritte, non conosceva l’alfa­beto ed ignorava o non condivideva i fonda­menti civili e sociali comuni.
Non ci dobbiamo stupire insomma delle spinte centrifughe che in questo scorcio di secolo affliggono l’Europa: il vizio diffuso dell’ etnocentrismo, la propen­sione cioè a considerare il proprio gruppo co­me l’unico metro possibile per valutare e in­terpretare le altre culture, ha come si è visto o­rigini antiche ed è presente pressoché in ogni angolo del mondo, con qualche felice eccezio­ne: l’impero romano resistette per secoli fino a quando seppe amalgamare e gestire le diffe­renze fra i suoi innumerevoli popoli e così fece la dinastia Han in Cina. Quattro secoli di guer­re e di divisioni nell’Europa moderna dovreb­bero averci insegnato che non è mettendo alla porta chi è diverso che si guadagna il biglietto d’ingresso nel paradiso degli eletti.
Eppure, anche nell’Europa di Maastricht, del Trattato di Lisbona, dei cruciali e spesso dimenticati Criteri di Copenaghen (che vincolano i Paesi membri al rispetto dei diritti dell’uomo e a quello delle minoranze), fiammeggiano – in u­na mortificante semplificazione concettuale che amalgama in un ingannevole rapporto di causa-effetto le istituzioni comunitarie e la congiuntura economica – focolai xenofobi, sussulti razzisti, velleitarie utopie secessioni­ste. Sapessero, questi Braveheart che cavalca­no lo scontento generale, che proveniamo tut­ti da qualche umilissima famiglia in una male illuminata catapecchia dove il problema prin­cipale era mettere insieme il pranzo con la ce­na e sopravvivere oltre i trent’anni, sarebbero forse meno orgogliosi di disfare a parole la tela dei popoli che con pazienza si è cominciato a filare già all’indomani del secondo conflitto mondiale. Una tela nella cui trama questa vol­ta i barbari sono loro.
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