venerdì 4 settembre 2015
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Il loro papà voleva soltanto strapparli all’orco della guerra, e portarli in Canada. Costretti dalle circostanze a raggiungere il loro Nuovo mondo, non per necessità economiche, ma per dovere alla vita, quando una mattina ti svegli sulla prima linea dove si uccide. Quanti sogni come questo abbiamo già visto spezzarsi o sentito raccontare quando ci sono persone che fuggono da un conflitto armato, portandosi dietro poche cose salvate in uno zaino e tanta paura negli occhi? Nell’era dell’informazione veloce le pagine dei giornali si inzuppano di inchiostro e immagini di vittime d’ogni età, riverse a terra senza più linfa. Salvarsi dalla guerra in Siria, e dal rivolo di altre crisi più o meno identiche, è diventato pane quotidiano per centinaia di migliaia di persone, il dovere della sopravvivenza: scappare per inoltrarsi attraverso le impervie piste della migrazione affidando la propria vita a trafficanti avidi di denaro e al cieco destino della sorte. Questo è stato il percorso intrapreso anche da quel padre. Uguale a tantissimi altri. Troppo piccoli, i bambini, per sapere che cosa avrebbero trovato in Canada, ma di certo tutti loro, grandi e piccini, mai avrebbero immaginato che nell’istante di un click fotografico avrebbero, addirittura, avuto diritto a fare un giro del mondo gratuitamente, a finire sulle prime pagine di tutti i media. I loro sogni si sono arenati su una spiaggia turca, e ora saranno riportati indietro, al punto di partenza, dall’unico sopravvissuto, dal papà, perché in queste storie non esiste la regola del gioco dell’Oca che concede di tirare i dadi del destino una seconda volta. Ma quel bambino curdosiriano di tre anni, di nome Aylan Kurdi – fuggito con la famiglia dalle rovine di Kobane, dalla guerra in Siria, e dal mare depositato come un vecchio straccio con il fratellino, la madre e altre 12 persone che hanno condiviso la stessa sorte, su una spiaggia di Bodrum, nella Turchia sudoccidentale – è diventato il «caso mondiale». Quel simbolo di uno strazio e di una indignazione che si ravviva tutte le volte che incrocia l’identico dramma, come fosse la prima, ci racconta in realtà del nostro silenzio, del nostro non udire e non vedere. I tre anni di vita di Aylan Kurdi sono lo specchio in cui si riflettono le immagini delle violazioni umane e il fallimento degli interventi fin qui fatti per dare risposta a una grave crisi umanitaria e intanto cercare 'una' pace a un tormentato conflitto che non vede sbocchi in nessuna direzione, se non quello di una guerra sempre più grave e che, di conseguenza, continuerà a produrre cento, mille, centomila fuggiaschi come quel papà di Kobane. Perché nell’era della globalizzazione delle informazioni non riusciamo più a vedere il mondo da vicino? A osservarlo nel suo ansimare, ad ascoltarlo quando ci parla? C’è bisogno di un’altra fotografia che faccia riaffiorare l’indignazione? Questa guerra siriana sembra, a volte, solo un brutto film fatto di siti archeologici fatti saltare per aria e orrende decapitazioni rituali condotte da volti incappucciati di nero, gli orchi e i loro proclami di sangue. Il fatto è che le immagini e le storie – ben rare in questo conflitto – sono solo quelle raccolte e trasmesse dagli occhi del testimone esclusivo, presente sul posto, a contatto con gli avvenimenti. Ma in Siria chi ci ha provato ha poi dovuto – se ha avuto la 'fortuna' di non essere macellato indossando una tuta arancione – raccontare mesi di prigionia trascorsi come una bestia in stalla. E allora il vero reportage della guerra 'che non si vede' ancora di più dovremmo riuscire a leggerlo in queste vite, quelle del papà di Kobane e dei suoi bambini. Per non doverci più solo indignare alla prossima istantanea di una nuova disgraziata vicenda umana. Di piccole e grandi bare bianche sono pieni i cimiteri ai confini meridionali d’Europa. Nelle stesse ore in cui si consumava la storia di Aylan Kurdi che ha fatto il giro del mondo senza saperlo, un altro bambino siriano parlava a un poliziotto ungherese a Budapest che gli impediva di salire su un treno per la Germania: «Fermate la guerra e non verremo in Europa. La Siria ha bisogno di aiuto». Meglio ascoltare la voce di un ragazzino vivo che sentire vibrare nella propria coscienza l’urlo silenzioso e straziante di un bimbo 'addormentato' per sempre fra le onde.
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