venerdì 5 dicembre 2008
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Ci siamo purtroppo abituati a sentir parlare di «guerre» di toghe e tra toghe, di «veleno» nelle procure o nei palazzi di giustizia. E qualche volta abbiamo anche dovuto prendere atto che non si trattava delle solite esagerazioni all'italiana. Le guerre c'erano davvero e il veleno in effetti veniva distillato e istillato. E, già da tempo, era apparso chiaro che il caso della spettacolare e melmosa inchiesta "Why not" rientrava a pieno titolo nella categoria delle vicende di guerra e di veleno. Per capirlo basta ripercorrere per sommi capi la stordente storia di quell'indagine: aperta a Catanzaro dal sostituto De Magistris; condotta impetuosamente fino a toccare personalità di sinistra, di centro e di destra; tolta dai superiori al pm titolare con ratifica finale del Csm che ha decretato il trasferimento di quel magistrato; via via inesorabilmente ridimensionata. Mai, però, c'era capitato di vedere uffici giudiziari (calabresi) circondati in forze da carabinieri e polizia per ordine di altri uffici giudiziari (campani). Mai c'era accaduto di assistere allo scambio di cannonate in forma di reciproci avvisi di garanzia tra pubblici ministeri di diverse procure. Mai ci saremmo sognati di veder accadere tutto questo a Catanzaro e a Salerno, sedi giudiziarie che vorremmo ancora pensare come segmenti essenziali della prima linea nella lotta alle mafie d'Italia. E mai avremmo immaginato che il capo dello Stato, nella sua veste di supremo garante dell'equilibrio costituzionale e di presidente del Consiglio superiore della magistratura, sarebbe stato indotto a un intervento severo e clamoroso: una duplice richiesta alle procure coinvolte, prima a quella di Salerno e quindi a quella di Catanzaro, di procedere all'«urgente trasmissione di ogni notizia e, ove possibile, di ogni atto utile» a comprendere e valutare una vicenda «senza precedenti» e dai profili «inquietanti». Il presidente Napolitano conosce assai bene i suoi doveri e i suoi poteri, e non ha certo sottovalutato l'impatto e le conseguenze di una decisione di tale portata e, a sua volta, senza precedenti. Una mossa che lascia il segno e che " giustamente " fa e farà discutere, ma che sul piano politico-istituzionale rappresenta una risposta pronta, proporzionata e rassicurante di fronte allo spettacolo emblematico e annichilente di una giustizia aspramente assediata e insidiata da se stessa. Una risposta tempestiva mentre si profila il rischio che, come un'infezione, il caso dilaghi e finisca per contagiare altre sedi giudiziarie. Ma c'è da sperare che diventi anche qualcosa di più. Il motore " o almeno una sorta di catalizzatore " di iniziative finalmente condivise e orientate a restituire credibilità, serenità ed efficienza alle procure coinvolte e a tutto il mondo giudiziario. Vorremmo, in particolare, fare nostri due concetti espressi dal presidente della Repubblica: la profonda inquietudine e il pressante senso d'urgenza. Sono esattamente questi i sentimenti che gli inediti e destabilizzanti eventi degli ultimi tre giorni stanno suscitando. E si aggiungono all'allarme e allo sgomento provocati dalle più "tradizionali" stilettate vibrate direttamente e indirettamente contro il Csm e soprattutto " addirittura sul piano giudiziario " contro lo stesso vicepresidente di quell'organo, il rigoroso Nicola Mancino. Parlare di rischioso gioco al massacro, insomma, non è eccessivo. E stavolta se ne rendono conto tanto i magistrati (e il loro "sindacato", l'Anm, lo ha detto ieri a chiare note) che i politici (nella quasi totalità, insolitamente sobri e misurati nelle reazioni di queste ore). La speranza " lo ripetiamo " è che gli uni e gli altri si rendano anche conto che alla drammatica consapevolezza del problema giustizia si deve una buona volta dare seguito con interventi incisivi e riforme ben calibrate. I magistrati sono e devono restare un autonomo potere dello Stato, ma non devono avere il potere politico di dichiarare guerra a nessuno. Neanche a se stessi.
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