mercoledì 16 giugno 2010
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Il rischio di una scissione dice di non vederlo. Ma se ha deciso di uscire da un lungo silenzio, lui, Franco Marini, vuol dire che il disagio degli ex-popolari nel Partito democratico è vicino al livello di guardia e non è più un questione interna e relativa a singoli parlamentari.In una lunga intervista al "Corriere della sera" l’ex-presidente del Senato, un passato remoto da leader della Cisl e da ministro e uno più vicino da segretario del Ppi, si esprime con la consueta franchezza. Dice che nella gestione del partito gli ex-ds hanno «quasi un monocolore» e chiede loro di «staccarsi con più decisione da parole d’ordine superate» e di «capire che un partito erede della sinistra non basta». Ma ne ha anche per i suoi, per quegli ex popolari che pure occupano posizioni importanti nel Pd – li elenca per nome: Letta, Franceschini, Bindi, Fioroni – e tuttavia non riescono a incidere con «un’azione culturale comune». C’è sicuramente – com’è nell’indole e nella storia politica di Marini – un’attenzione peculiare per i rapporti di forza interni, per la titolarità concreta degli snodi operativi del partito. E quando l’ex-presidente del Senato si appella ai quattro esponenti nazionali della sua area sopra citati, invitandoli a muoversi «al di là delle diverse collocazioni interne», se non adombra una vera e propria corrente (cosa che tiene esplicitamente ad escludere), di sicuro pensa che senza un minimo di massa critica ogni discorso sia destinato a restare velleitario.Oltre questi aspetti, pur rilevanti sul piano politico, l’elemento più interessante dell’intervista è però un altro e si colloca a livello culturale. Qui Marini, come per mettersi al riparo da eventuali accuse di confessionalismo (sempre a portata di mano, quando ci si azzarda a toccare il tema di certi valori fondanti) ricorre a uno Scoppola d’annata per supportare l’idea che quando ci si scioglie in un soggetto politico più ampio occorre non un meno di identità, ma un più di radicamento nella propria cultura e nella propria storia. E questo radicamento deve trovare piena cittadinanza nel Pd, non essere tollerato con fastidio. Perché si capisca dove vuole andare a parare, Marini mette il dito nella piaga e punta dritto contro quei dirigenti ex-ds che vorrebbero nel partito decisioni «a maggioranza sui temi eticamente rilevanti». A loro riserva un giudizio senza appello: «Politici da età della pietra».Difficile prevedere quali conseguenze avrà la sortita dell’ex-presidente del Senato. E se ne avrà. Bersani ha dichiarato interesse per le riflessioni di Marini, e non bisogna essere particolarmente maliziosi per comprendere che il segretario del Pd non può certo permettersi il lusso di non incassare il sostegno che lo stesso Marini gli offre in modo esplicito nell’intervista.Resta il fatto che i problemi additati finalmente da Marini con tanta decisione sono drammaticamente attuali per il Pd, quale che sia la reale volontà politica dei suoi dirigenti. In questione non c’è soltanto la perdita progressiva di personale politico e di pezzi di apparato – di cui pure non sono mancati in questi anni esempi tutt’altro che irrilevanti – ma quella ben più grave di segmenti di elettorato che non trovano più le ragioni di un voto espresso con convinzione e coerenza, come dimostrato anche dalle ultime regionali.È lecito persino chiedersi se l’appello di Marini arrivi in tempo utile e se ci siano quindi ancora i margini effettivi per un recupero. C’è chi se lo augura, anche non riconoscendosi nel Partito democratico, ma adducendo apprezzabili e più ampie ragioni di sistema. C’è chi non ci crede più e magari ha già preso altre strade. Per questo la risposta non potrà che misurarsi sul campo. «Gli ex-ppi devono portare nel Pd il meglio di quello che hanno fatto», afferma ancora Marini nell’intervista. Ma più di tutto conta quel che saranno capaci di fare adesso, in limpido riferimento ai valori dell’umanesimo cristiano, di fronte alle grandi sfide che interpellano uomini e società sin nelle loro fondamenta.
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