Quel segreto che più non pesa
mercoledì 21 aprile 2021

C’è un altro 'rischio ragionato' nell’attività del governo Draghi, oltre a quello sulle riaperture. È il rischio legato a un tema di cui 'non si parla più', come ha notato pochi giorni fa Romano Prodi, o comunque poco, pur essendo stato uno dei detonatori della fine dell’esecutivo Conte: il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Lunedì prossimo il presidente del Consiglio presenterà in Parlamento il testo finale, dopo che le Camere si sono 'esercitate' su un testo di fatto superato. Ora, nessuno nutre dubbi sul fatto che il documento affidato all’ex numero uno della Bce (di cui finora è circolata ai primi di marzo una bozza incompleta, oltre alle schede di supporto inviate l’11 marzo a Bruxelles) sarà migliore – e soprattutto più difficile da criticare per i vertici Ue – di quello dell’avvocato ed ex premier Conte, peraltro sottoposto a una serie abbastanza dura di rilievi nelle audizioni delle parti sociali e nelle stesse risoluzioni parlamentari: dove, accanto a un diplomatico giudizio 'complessivamente positivo', si evidenziavano una serie di limiti, a partire dalla genericità sugli 'obiettivi, intermedi e finali' delle 6 missioni indicati dal quel Pnrr e sui tempi di realizzazione.

Il paradosso è lampante: il più importante testo 'politico' (nel senso pieno del termine) del decennio, su cui si è a lungo reclamata l’esigenza di un maggior processo partecipativo, con l’avvento del nuovo governo per ora è finito ancor più nel 'segreto' di poche stanze ministeriali. Draghi ha voluto che la sua stesura fosse affidata al ristretto manipolo degli staff dei ministri a lui più vicini, tutti di estrazione 'tecnica'.

Al punto da indurre un problema per la governance chiamata a supervisionare il Piano, dalla quale temono di restare esclusi i partiti, ora coinvolti da Draghi in una serie di incontri finali. E col paradosso di ipotizzare ora un provvedimento a parte su questo punto, dopo aver a suo tempo 'lapidato' Conte proprio per aver ipotizzato un decreto sulla governance. Il testo che verrà presentato sarà una versione, insomma, alla 'prendere o lasciare', al di là del voto finale che il Parlamento ha reclamato. Una versione che, certo, potrà essere ulteriormente migliorata nei passaggi successivi, a partire dal dialogo continuo con gli uffici della Commissione Ue.

Ciò non toglie, tuttavia, che rimanga la necessità di un qualcosa 'di più coinvolgente' che si può e si deve fare. L’Italia non può essere 'tenuta a distanza' dalla progettazione che l’Italia stessa deve fare per applicare quel Next Generation Eu, che – secondo le ultime stime – le porterà 191,5 miliardi, suddivisi in circa 69 miliardi di finanziamenti e 122 di prestiti. Cifre considerevoli, rispetto al paradigma di austerità della Ue nell’ultimo ventennio, ma tutto sommato nemmeno così imponenti, in rapporto agli sfaceli lasciati dalla crisi pandemica. A fare la differenza può essere, allora, quella «mobilitazione collettiva» evocata ieri da Draghi con le parti sociali, per trovare nel Paese la capacità di programmare e realizzare in tempi rapidi gli interventi, senza rinvii e dilazioni infinite (il Piano si chiude nel 2026).

Assieme a una capacità della nostra Pubblica amministrazione che richiede un salto di qualità rispetto al passato anche recente, come dimostra a esempio il caso Investitalia, struttura annunciata con enfasi dal governo Conte I e rimasta di fatto al palo. Draghi giustamente ha accennato più volte alle 'semplificazioni', capitolo tante volte enunciato in passato, ma che rappresenta ancora una montagna da scalare; altrimenti realizzare grandi progetti resterà arduo (vedi gli ostacoli che stanno frenando il superbonus al 110%). Inoltre va meglio definito (e compreso) come il Pnrr si raccordi con una politica industriale che non si esaurisce nel Piano stesso. Negli ultimi giorni, a Bruxelles si continua a ripetere che vale più la «qualità» della fretta, anche derogando eventualmente alla scadenza del 30 aprile.

E questo perché è auspicabile che il grande Piano europeo ci aiuti a centrare l’obiettivo di una efficace ed effettiva 'transizione ecologica' che propizi e segni una fase di sviluppo accompagnata da una crescita del Pil anche superiore a quell’1,8% delineato per il 2024 nel Def. Sognare è un dovere, a questo punto. Per ridurre il peso di un debito pubblico a livelli elevatissimi servono – ma questa è un’altra cruciale partita – il coraggio e la serietà di compiere scelte lungimiranti almeno sullo stock del debito generato dalla lotta al Covid e accumulato in pancia alla Banche centrali. Altra premessa per creare una stagione nuova e diversa di sviluppo equo e sostenibile.

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