lunedì 13 aprile 2015
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​Caro direttore,sono un avvocato del Foro di Milano e giovedì mattina per caso non mi sono trovata nel mezzo della sparatoria nella quale hanno perso la vita un giovane collega, un giudice e un ex socio dell’omicida. Vorrei sottolineare che in una situazione così drammatica, non hanno senso le contrapposizioni fra magistrati, avvocati e cittadini per dare la colpa all’uno o all’altro, o alle falle nella sicurezza... Lo ha ricordato ieri, durante la commemorazione delle vittime, il presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio: occorre recuperare il rispetto, cominciando noi per primi, operatori della giustizia, a rispettarci gli uni gli altri e a ponderare le parole e i gesti. Un invito all’unità e alla collaborazione. Spesso noi avvocati veniamo additati come categoria che specula sulle disgrazie altrui, dimenticando che svolgiamo un ruolo previsto dalla Costituzione come diritto inviolabile: la difesa del cittadino nei procedimenti giurisdizionali. Si tratta di una professione appassionante, ma anche molto stressante e difficile: accogliamo i clienti nei nostri studi, ascoltiamo i loro problemi, cerchiamo con loro di trovare la soluzione a questioni anche molto complesse e umanamente drammatiche. Solo la preparazione tecnica e pratica consente di svolgere correttamente questo compito fondamentale, che non può essere improvvisato. È difficile a volte spiegare che non sempre quello che si ritiene un diritto lo è veramente, o far comprendere la complessità delle normative e le varie fasi del processo. Senza contare che la nostra attività prevede contributi previdenziali altissimi, costi di gestione dello studio, obblighi di aggiornamento, e comporta enormi responsabilità senza la certezza di ricevere il compenso per il nostro lavoro. Mi auguro quindi che il tragico fatto di ieri stimoli riflessioni serie a tutti i livelli, che portino ad un maggiore rispetto per la Giustizia, intesa nel senso più alto del termine, e per chi ogni girono mette la propria professionalità al servizio della tutela dei diritti dei cittadini. Solo così potrà avere un senso il sacrificio di chi ha perso la vita.Marta Colombo, Milano
Caro direttore,per un volta proverei a non farne una questione politica, oppure, almeno proverei a lasciarla da una parte. Per una volta, solo per questa volta. Perché quello ch’è avvenuto all’interno di un Tribunale italiano, a Milano, non in una sperduta provincia italiana, è di una gravità tale da far rabbrividire. Da non ammettere strumentalizzazioni in un senso o nell’altro. È una tragedia da ricondurre "semplicemente" a quella che dovrebbe essere la gestione quotidiana e la protezione di un luogo dove la tutela delle persone, delle sofferenze e delle tensioni è il pane di ogni giorno, e dove la sicurezza interna dovrebbe essere assicurata e garantita senza alcun dubbio. E dunque, se pure con tutte le sfumature, con tutti i distinguo, con le possibili attenuanti, mi chiedo come si faccia a poter accettare che contemporaneamente non abbiano funzionato i controlli visivi, i metal detector, le telecamere, i piani d’emergenza, la sicurezza ai piani, quella agli uffici sensibili, quella alle aule di dibattimento? E ancora come ci si può capacitare del fatto che i piani d’evacuazione di questo grande Palazzo di Giustizia si siano rilevati peggiori di quelli di una qualsiasi manifattura di provincia? Con tutto il rispetto per i piani d’evacuazione delle manifatture di provincia, dell’attitudine a non rispettare le procedure di tanti dipendenti pubblici e privati e delle infinite preoccupazioni dei poveri "responsabili alla sicurezza". Dunque: quei tre morti, quei 7 feriti, quel folle sparatore, quel susseguirsi di eventi che non avrebbero dovuto accadere in quel luogo... Fatti che dicono, anzi gridano, che sbaglia chi vuol cambiare obiettivo. Chi vuole accusare tutti con la scusa di non giudicare nessuno. In questa storia non c’è alcun nesso con la crisi della Giustizia, con la delegittimazione della Magistratura, con un attacco al cuore dello Stato. In questa storia c’è "solo" una serie di errori, colposamente presenti. Limiti messi in evidenza dalla lucida follia di un uomo senza ragione. Ma, allo stesso tempo, limiti che ci fanno tremare al pensiero di quelle che potrebbero essere le terribili azioni preordinate di singoli o di gruppi ancora più esagitati e criminali dell’imputato milanese. E allora, direttore, come non pretendere che si metta in campo un maggiore senso di responsabilità, una migliore organizzazione, anche di fronte a eventi il cui tasso di imprevedibilità è altissimo? Bisogna, in ogni caso, onorare l’obbligo di limitare al massimo il rischio, il danno possibile, per i singoli e per la comunità. E senza che ci sia bisogno dell’eroe di turno.Luca Soldi, Prato
Meno male che tanti italiani sanno ragionare così. E meno male che lettere come le vostre, gentili e cari avvocato Colombo e signor Soldi, sono arrivate in buon numero dopo la tragica mattinata del 9 aprile al Palazzo di Giustizia di Milano. Lettere pacate, utili, complementari. Ho scelto le vostre proprio per questo, e perché mi esentano dal soffermarmi su aspetti già raccontati, analizzati e commentati su "Avvenire" e ripresi con efficacia da voi. Mi preme qui sottolineare solo un punto, quello che forse mi resta in mente e nel cuore dopo aver consumato tutta intera la parte di dolore che, da uomo, inevitabilmente mi spetta non per il clamore del fatto, ma per la sua assurdità, per questa drammatica, ennesima, malvagia ripetizione del "gesto di Caino" (Ogni morte violenta intacca la nostra comune umanità e scrive una nuova riga di sangue nel libro delle storie e della storia che tutti ci riguarda). Non c’è alibi che tenga davanti a un evento così. Non regge quello dell’assassino, che si racconta vittima di una giustizia ingiusta e che si pone come giudice di tutti: magistrati, avvocati, coimputati. Non regge quello dei portavoce della magistratura che raccontano stucchevolmente se stessi come unici bersagli. Non regge quello dei politici che si autoassolvono con l’immancabile scaricabarile delle altrui competenze. Proprio così, non c’è alibi. E non c’è proclamata o strisciante autoreferenzialità che resista alla prova dell’evidenza e del sangue. A ridurre tutto al proprio "sacro recinto" di aspettative, interessi, poteri, presunzioni e diritti ci si mette comunque su una strada di morte, di annullamento dell’altro. E questo vale per chi impugna una pistola, un volante, una provetta, un pacchetto azionario, un codice... Vale per qualunque "libertà" senza responsabilità, senza relazione seria con le altre libertà e dignità. Vale per ogni libertà senza amore.
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