giovedì 27 ottobre 2011
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«Penso che un buon cristiano deve essere prima di tutto una brava persona, che non conosce l’invidia e che cerca di non fare mai del male agli altri. E se può, anzi dà una mano al prossimo. Queste sono anche le regole che mi ha trasmesso la mia famiglia». È quanto mi disse Marco Simoncelli l’unica volta che abbiamo potuto parlare tranquillamente, lontani dal rombo di tuono di un paddock e da quei riflettori accecanti puntati sull’erede designato di Valentino Rossi. Al suo fianco stava il “sosia”, l’uomo di domani che sarebbe diventato il "Sic", suo padre Paolo. E lui seguiva l’intervista dalla giusta distanza, quella del "papà di Marco" e non del genitore invasato (quanti ce ne sono in giro...) del campione del mondo della 250 e del futuro talento in ascesa della MotoGp. Come Graziano Rossi con Valentino, è stato Simoncelli senior, appena Marco ha imparato a camminare, a metterlo in sella a una minimoto e a dirgli: «Ora vai, corri e divertiti». Gli ha insegnato che in pista tutto può accadere, che la disperazione e la gioia si sorpassano continuamente. Che si può anche cadere e vedere la morte in faccia, «perché le corse sono le corse», ma un vero pilota è quello che ha il coraggio di rimontare subito e di continuare la sua sfida con lo «spirito del guerriero». E quello spirito, Paolo a quel figlio «duro in pista e tenero nella vita» – come ha detto Valentino – glielo aveva trasmesso nel sangue. Così ora il più grande rimpianto di questo padre rimasto senza il suo ragazzo è che Marco ha voluto essere guerriero fino in fondo, «per tenere su la moto» e continuare la sua gara. In quell’ultimo gesto del “Sic” c’è la voglia di rispettare l’insegnamento paterno. «Papà è la persona che mi conosce meglio e che mi è stato sempre vicino con i suoi consigli e con il grande amore che può avere un genitore per un figlio che deve affrontare le difficoltà e cercare di superarle in fretta, perché in questo mondo delle moto vince chi va più veloce». Disse quel giorno Marco, specchiandosi negli occhi dolci e schietti di papà, orgoglioso del suo "angelo". Ma in quell’ultima curva della sua esistenza Simoncelli ha voluto anche confermare il suo credo: spingersi sempre un metro più in là del limite estremo imposto a ogni uomo. Quella che è stata la sua marcia in più, alla fine forse lo ha tradito, mettendolo di fronte a tutta la limitatezza umana. Nell’infinito in cui starà sgasando, ora sa che non basta essere i più veloci per superare la morte. Un finecorsa precoce e crudele, davanti a due occhi che non avrebbero mai voluto assistere a quel finale. Gli occhi umidi e straziati di un padre che con uno scooter ha corso per riportare disperatamente in vita il suo Marco, ma era troppo tardi. I soccorsi in gara sono stati goffi, come la postura di quel ragazzone di 191 centimetri in sella alla Honda n° 58, ma papà Paolo non accusa nessuno. In un attimo di disperazione come questa, lui e sua moglie Rossella, due genitori che provano l’assurda condizione di sopravvivere a un figlio, potrebbero avercela con il mondo, con un destino incattivito. Invece, con una dignità davvero esemplare, ringraziano per il bene quasi sorprendente che tutti hanno voluto e vogliono al loro figlio. È l’amore che si prova per "uno di noi", dicono i tanti ragazzi, i padri e i nonni che oggi saliranno a Coriano da tutta Italia (e anche dal resto del mondo) per andare a salutare Marco per l’ultima volta. L’ultimo «ciao Sic», al ragazzo che correva da fenomeno, ma che amava solo le cose semplici: giocare con la sorella Martina, andare sulla spiaggia di Rimini, mano nella mano con la «mia morosa, la Kate», accarezzare l’erba e il muso di un cane. Una vita normale, nonostante per mestiere dovesse correre come un folle. «Noi lo abbiamo accompagnato solo in quello che gli piaceva fare», ha detto mamma Rossella. È l’esempio di Paolo e Rossella, uniti nel loro indicibile dolore, ma confortati dalla fede e, forse, dalle parole del poeta: «Muore giovane colui che al cielo è caro».
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