Quel gioire perché un uomo è morto. Eppure non bisogna mai disperare
martedì 27 giugno 2017

Caro Avvenire,

scrivo riguardo il caso dell’omicidio di Luca Varani, perché in questi giorni ho sentito del suicidio in carcere di uno dei due imputati, Marco Prato, per l’orrendo delitto.

Ora al di fuori di qualsiasi sentimentalismo o pietismo, da cattolico provo una certa amarezza per tutto ciò. Questo perché come esseri umani tutti siamo soggetti a sbagliare, anche molto; leggendo il Vangelo si capisce che il buon ladrone forse non era migliore di Marco, e correndo ai nostri tempi recenti lo stesso Alessandro Serenelli (l’assassino di Maria Goretti) forse stava “a pari demerito” con Marco. Voglio ricordare che nel momento del delitto sembra si siano consumate anche sostanze stupefacenti, e mi chiedo se questo non abbia alterato la lucidità di tutti i protagonisti.

Non voglio giustificare nessuno e voglio ribadire la mia profonda vicinanza ai genitori di Luca Varani, ma per favore consentitemi lo sfogo, neanche Alessandro Serenelli era stato massacrato così dai mezzi di comunicazione. In tutto questo mi domando se qualcuno in carcere ha teso una mano a Prato per evitare questo tragico epilogo. Da cristiano vi confido sinceramente la mia amarezza per tutto ciò che ho udito, letto e sentito di questa triste vicenda. Addirittura magari si crede cristiano chi dice che, se Marco si è suicidato, alla fine ha fatto la cosa più giusta, l’unica che doveva fare! Non sarà che il sale di cui parla Gesù stia perdendo di sapore?

Andrea Roma

Il suicidio nel carcere di Velletri di Marco Prato, il giorno prima della udienza del processo per l’omicidio di Luca Varani, è una vicenda di una dolorosità che lascia senza fiato. Per tutto: per la atrocità di un delitto che sconvolse Roma, per la casualità della scelta della vittima («Volevamo provare a vedere com’è, uccidere», dichiarò l’altro imputato, Manuel Foffo, già condannato con rito abbreviato a trent’anni); per la modalità feroce di un omicidio perpetrato con cento colpi di coltello e martello, durante un festino sessuale. Per tutto, davvero. E ora anche per il suicidio di uno degli imputati, in cella: un sacco di plastica, un erogatore di gas per i fornelli, e l’ha fatta finita.

Il Ministero di Giustizia ha aperto un’indagine per verificare se le procedure contro il suicidio fossero state rispettate. Ma Prato aveva già tentato di morire, appena dopo quella notte in un appartamento del Collatino. Aveva scritto anche un disperato testamento: «Fate festa, al mio funerale». Il lettore si chiede se qualcuno in carcere gli abbia porto una mano. Non manca in nessun carcere italiano un cappellano, e non dubitiamo che a Velletri ci si sia avvicinati a quel detenuto. Non sempre però è possibile penetrare nella solitudine degli uomini, e nella peggiore delle solitudini, quella del male.

Ma è assolutamente vero, come scrive il lettore, che questa morte lascia una intensa amarezza. Anche per le reazioni sui social: quella macabra soddisfazione, quel gioire perché un uomo è morto. Quasi che il mondo ora fosse più pulito.

Invece il mondo è più buio, ogni volta che il male sembra avere l’ultima parola. Il lettore cita l’assassino di Maria Goretti. Alessandro Serenelli morì a ottant’anni, lasciando questo testamento: «Consumai a vent’anni il delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora santa, fu l’angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore. Seguirono trent’anni di prigione. Accettai la sentenza meritata; rassegnato espiai la mia colpa. Maria fu veramente la mia luce, la mia protettrice; col suo aiuto mi diportai bene e cercai di vivere onestamente, quando la società mi riaccettò tra i suoi membri. I figli di San Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come un servo, ma come fratello. Con loro vivo dal 1936. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio angelo protettore».

Maria non aveva ancora dodici anni quando Serenelli tentò di violentarla e la uccise. Era una bambina. Un delitto atroce, paragonabile come efferatezza a quello del Collatino. E però quale altro respiro, quale altra parabola umana alla fine di tanto male. Nel 1902, i social non c’erano. Forse molti però auguravano all’assassino di impiccarsi. Eppure, guardate poi cos’ha fatto della sua vita quell’uomo. Disperare, non bisogna mai. I giornali hanno scritto che alla notizia del suicidio in carcere di Marco Prato la madre di Luca Varani ha pianto. Da una madre straziata, la più grande lezione di pietà, dentro al chiasso di un mondo sempre più immemore della fede in cui si è formato.

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