domenica 28 agosto 2011
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Il video passa sui telegiornali e sul web, e mille volte davanti all’inviato di Al Jazeera un disperato infermiere spalanca di nuovo quella porta: dietro, su barelle caoticamente affastellate, decine di morti, poveri grumi sotto a un lenzuolo sporco. Sono i forse duecento morti di Abu Slim, l’ospedale nel quartiere roccaforte dei lealisti, dove feriti e agonizzanti sono stati abbandonati, sembra, perché il fuoco dei cecchini rendeva impossibile a medici e infermieri di entrare. E ora che un giornalista e una telecamera sono arrivati, ecco, guardate – sembra significare l’inserviente, mentre spalanca con rabbia quella porta.Guardiamo noi, dalle nostre case in pace, con sbalordimento; perché se possiamo immaginare cosa sia un ospedale al centro di una guerra civile, qui un’altra camera dell’inferno ci si apre davanti. C’è, nella morsa della ferocia fratricida, il segno dell’abbandono degli agonizzanti. Un braccio scuro che pende giù da una barella, non ricomposto, sembra ancora allungato a domandare un bicchier d’acqua. E allora intuisci che c’è ben altro, che quel video non può mostrarci: la sete di un moribondo, e il caldo d’agosto in Nordafrica, e l’odore di sangue e di cancrena; e poi quel lezzo dolciastro che s’allargava, l’odore della morte a mietere l’ultimo fiato dei vivi. Non ci mostra nemmeno, il video, le voci, le grida, le invocazioni senza risposta (mio padre, alpino sul Don, raccontava che lo impressionava laggiù come uomini grandi e grossi, moribondi, invocassero, tutti, la madre.Invocavano la madre anche gli agonizzanti di Abu Slim?). Chiamavano, supplicavano, e nessuno rispondeva. Bestemmie, pianti, e poi le mani infine immobili, aperte come a mendicare – vuote. Nello strazio di Tripoli sotto le bombe e il fuoco dei mitra, nella ordinaria bestialità di una guerra, quei corpi rannicchiati sotto le lenzuola sono un passo in più dentro l’inferno.Quel tipo di immagini che siamo abituati a vedere, nei libri di scuola, ad insegnare ai figli le atrocità del passato. E anche noi da ragazzi le abbiamo guardate attoniti: possibile, che si sia stati capaci di tanto male? Ma certo, ci dicevamo fra noi, sono orrori del passato; ed è impossibile che tornino a accadere in questo nostro mondo moderno e civile. Invece l’inferno è appena dietro l’angolo, appena oltre il mare, appena ieri: è un ospedale gremito, quando sparano sugli ingressi, e di medici ne rimangono due. E a sparare, sono anche i fratelli e gli amici. E tutto accade ancora e di nuovo; nel progresso, nell’evo tecnologico, nel terzo millennio si muore di odio, soli, come negli assedi dei secoli bui. Nel nostro affannoso parlare di pace e diritti, un male antico germina rigoglioso: guardatelo nell’ospedale di Abu Slim, Tripoli – dove ci si odiava troppo, per ascoltare i moribondi. Dove nessuno ha risposto alle grida e ai pianti. Dove restano le mani spalancate dei morti, a darci un segno dell’unica salvezza possibile: domandare, come mendicanti, misericordia; domandare a Dio, sapendo che non ci basteranno, da sole, la nostra ansia di umana giustizia, e le leggi e trattati, e le nostre povere parole.
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