Ora che il tiranno è fuggito, scappando dall’implosione repentina del suo regime, resta da capire quale futuro aspetti la Siria, uno dei Paesi più tormentati del Medio Oriente. Il nuovo apparente uomo forte, Abu Mohammed al-Jolani, il capo del movimento post-jihadista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), promette libertà e tolleranza per le tante minoranze etniche e religiose del Paese. Ma la storia, così come le cronache più recenti, ci hanno dato continue dimostrazioni di quanto le parole di questi islamisti pseudo-moderati vadano prese con estrema cautela. Né va dimenticato come gli oppositori del deposto Bashar al-Assad siano una galassia di entità diverse e spesso rivali, in molti casi manovrate dalle potenze regionali e internazionali che usano da quasi tre lustri la Siria come arena per i loro “conflitti per procura”, le cosiddette proxy-war.
Certo, in pochi piangono la fine di una dittatura così crudele come quella della famiglia al-Assad, iniziata mezzo secolo fa e caratterizzata da un sistema di potere tanto oppressivo quanto corrotto e inefficiente. Lo scorso decennio, con lo scoppio delle rivolte in tutto il mondo arabo, la sorte del regime sembrava segnata. E, invece, il massiccio sostegno offerto da Russia, Iran e dalla milizia sciita libanese di Hezbollah avevano permesso al presidente al-Assad di vincere contro i propri oppositori. Una vittoria militare che non si era tuttavia tradotta né in una pacificazione del Paese né in una ricostruzione, dato che i suoi potenti alleati non avevano né mezzi né volontà di farlo.
Ancora una volta si è dimostrato come la pace, intesa quale semplice fine degli scontri militari, non sia una vera pace, ma solo un intermezzo in attesa del riemergere delle tensioni. Cosa puntualmente accaduta ora che la Russia è sfiancata militarmente ed economicamente dalla mal progettata invasione dell’Ucraina, l’Iran indebolito e umiliato e Hezbollah decimato dalla iper-potenza israeliana. Con il sostegno della Turchia, Hts ha attaccato, portando all’implosione repentina di un regime privo di credibilità, retto solo dal sostegno esterno. Cosa accadrà ora? Al-Jolani, come già detto, ostenta una moderazione che stride con il suo passato di jihadista qaedista e con le ambiguità dei suoi miliziani e della galassia di sigle islamiste che si sono riattivate in questi giorni nel paese. Sperare in una transizione ordinata del potere, senza che la caduta del dittatore porti a una nuova guerra civile fra le fazioni vincitrici, è certo legittimo; temere che le rivalità personali e politiche, ma soprattutto che il dogmatismo dottrinario dei salafiti-jihadisti al potere innesti una spirale di radicalizzazione e repressione delle minoranze non suona irrazionale. Anche i “nuovi” taliban, ritornati al potere nel 2021 a Kabul, professavano moderazione e discontinuità del passato: vediamo oggi, con il tetro presente delle donne afgane, quanto vuote fossero le loro promesse. Così come in Iran, nel 1979, una volta abbattuto lo shah Pahlavi, l’ayatollah Khomeini tradì le speranze di un popolo che lo aveva scelto come leader per imporre la propria visione islamista radicale.
Ma più ancora del comportamento dei vari movimenti locali che si contendono il potere, a decidere del futuro politico della Siria saranno le potenze regionali e internazionali che in passato hanno usato il Paese quale arena per combattersi a distanza, con una feroce proxy war. La Turchia che sembra uscire vincitrice dal ribaltamento del potere, l’Iran che perde un Paese chiave per la propria proiezione geopolitica, la Russia che vede in pericolo le sue basi navali e aeree sulla costa siriana, le monarchie del Golfo e Paesi arabi sunniti anti- islamisti come Egitto e Turchia, il governo di ultradestra israeliano come si porranno dinanzi alla nuova Siria? Torneranno a combattersi per procura o cercheranno di spingere i proprio protetti a una mediazione che garantisca stabilità e impedisca la frammentazione? Insomma, scateneranno una nuova proxy war o tenteranno un “proxy deal”, un “accordo per procura”? Europa e Stati Uniti potrebbero ovviamente favorire un processo di transizione verso una Siria finalmente pacificata. Ma, sia pure per motivi diversi, entrambi sembrano ripiegati su loro stessi, prigionieri dei loro labirinti politici. Senza un coinvolgimento con una strategia coerente, rischiamo di essere spettatori poco influenti: un rischio che non possiamo permetterci, sia per i nostri interessi di sicurezza, sia – e soprattutto – per dare una speranza a un popolo che da decenni vive un incubo umanitario.