sabato 2 marzo 2013
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Nel momento in cui Benedetto XVI ha lasciato volontariamente il papato, è opportuno non fare entrare nell’animo tristezza ed amarezza, ma quella gioia alla quale egli ha invitato durante tutto il suo pontificato, quantunque sapesse che il mondo tendeva sempre più ad abbassare il nobile e l’alto e a far perdere le dimensioni più profonde dell’esistenza. E quindi ad allontanare dalla vera gioia.
Per comprendere bene qual sia la gioia alla quale Benedetto XVI ha invitato, ci possono aiutare due testi della letteratura tedesca. Uno è la prima delle Lettere sull’autoformazione di Romano Guardini, pubblicate nel 1921; l’altro è l’ode alla gioia (An die Freude) scritta da Friedrich Schiller nel 1786, che Ludwig van Beethoven usò in parte per il finale della sua grandiosa Nona Sinfonia, che esprime il passar della solitudine desolata alla gioia universale.
Subito all’inizio della sua lettera, Romano Guardini, considerato da Joseph Ratzinger 'grande maestro', scrive che c’è completa diversità tra l’essere allegri e la gioia. Questa vive nell’intimo, è silenziosa, profondamente radicata, ed è sorella della serietà. L’essere allegri invece è un fatto esterno, rumoroso, che presto si dissolve. La gioia trasforma ogni cosa ed illumina il mondo. Viene e va a piacer suo. Tuttavia ognuno può tendere verso d’essa; ciascuno la può possedere. «Non proviene dal denaro, da una vita comoda, o dal fatto d’essere riveriti dalla gente, anche se da tutto questo possa essere influenzata». Viene piuttosto dalle cose nobili, da un lavoro intenso, da una parola gentile, che si è sentita o si è potuta dire, dall’essersi opposti coraggiosamente all’errore di qualcuno o dall’aver raggiunto una veduta chiara in qualche questione importante.
Dopo aver ricordato che è nell’interiore che abita Dio, che è la verità, Romano Guardini afferma che è Lui la fonte vera della gioia. Se si è una sola cosa con Dio allora la sua gioia fluisce in noi, anche se il mondo esterno è contrario. Ma l’essere una sola cosa con Dio deve essere libero, coraggioso, non forzato, angosciato o diffidente. Prima di ogni lavoro o al sopraggiungere di qualcosa di nuovo ci si deve domandare lietamente che cosa si debba fare, senza lasciarsi ingannare dal capriccio, dalla volubilità, dall’indolenza verso se stessi.
E bisogna sempre tener presente che due sono i grandi nemici della gioia: il malumore e la malinconia. Il malumore deriva dal prendere sempre tutto a male, dal non saper ridere, dal non saper rinunciare, dal non saper lasciar correre. La malinconia, che infonde vaga tristezza, struggente inquietudine, e spinge a rinchiudersi in se stessi, è una forza oscura che disgrega l’anima, se non la si ferma al primo avvertirla, e porta a non padroneggiare più la propria vita. Friedrich Schiller inizia la sua ode invitando gli amici a tralasciare i soliti suoni e ad intonarne altri, più piacevoli e più gioiosi. Poi scrive che la gioia è una bella scintilla divina, che ha la magia di ricongiungere ciò che la moda ha rigidamente diviso, e di far sì che tutti gli uomini che l’avvertano diventino fratelli. Gioia vien donata agli uomini dalla natura con i suoi luoghi di divina bellezza.
Sia i buoni che i malvagi seguono la traccia della gioia. Schiller invita tutti a percorrere gioiosamente la propria strada, così come gli astri percorrono la loro nella splendida volta del cielo. Dopo aver esortato le moltitudini del mondo ad abbracciarsi, ad essere fratelli, dice: «Sopra il cielo stellato deve abitare un padre affettuoso». E domanda: «Vi inginocchiate, o moltitudini? Intuisci il tuo creatore, o mondo?». E conclude: «Cercalo sopra il cielo stellato! Sopra le stelle deve abitare!». Aveva scritto Romano Guardini che ogni volta che sinceramente diciamo: «Signore, io voglio ciò che tu vuoi», è aperta la via verso la gioia di Dio. Per questo siamo certi che per Benedetto XVI, il quale ha compreso che per il bene della Chiesa il Signore ha voluto la sua rinuncia al papato, si sia aperta la via verso quella gioia di Dio, che costantemente ha augurato a tutti gli uomini del mondo di buona volontà. E ciò sentendo anche in noi stessi quella purissima gioia che è stata spesso goduta nei tempi che sono svaniti.
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