venerdì 17 agosto 2012
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Caro direttore,stupirò qualcuno, ma io penso che un sacerdote, se ce lo fanno stare, ci deve essere anche con le truppe che sono impegnate in "carneficine". Scrivo «se ce lo fanno stare», perché naturalmente non potrebbe tacere e dovrebbe impegnarsi a chiarire ai soldati che cosa tutti loro possono o non possono fare, anche a rischio della vita (che rischiano comunque ogni giorno). Detto questo, ritengo che quello che anche noi italiani stiamo facendo in Afganistan sia una guerra infame, perché è una guerra che non divide (e non può dividere) tra civili e militari, tra bambini e combattenti. È una guerra fatta così, tecnicamente. Dalla seconda guerra mondiale in poi le guerre sono innanzitutto contro i civili. Trovo retorico l’appello dei sacerdoti "pacifisti", e lo dico io che sono personalmente antimilitarista in modo radicale e senza discussioni: fate quel che volete, senza il mio consenso (se potessi taglierei il mio contributo fiscale della quantità di spesa militare italiana). In ogni caso, direttore, non si può dire che, oggi, i nostri soldati fanno «azioni di pace», e non si può dire, perché non è vero! L’unica occasione in cui è stato vero è stata la famosa spedizione in Libano (nei primi anni Ottanta), che infatti fu conclusa rapidamente perché quel che interessava non era la pace, ma la guerra. Per il resto gli italiani sono andati come sono andati tutti gli altri. A uccidere chiunque capitasse a tiro e senza dover e poter distinguere tra civili e militari. Così è successo in Iraq (dove il maggior contributo alla islamizzazione del territorio iracheno e alla cacciata dei cristiani da quel Paese l’hanno dato truppe assistite da preti cristiani e, anche, cattolici). Così è successo in Somalia. Così succede oggi in Africa, in Congo, dove le truppe Onu servono a garantire che il furto di energia perpetrato contro quelle popolazioni continui, come il saccheggio delle risorse. Siamo assassini, caro direttore, lei e io siamo assassini oggi, insieme ai nostri soldati italiani. E la presenza di preti non ci salva. Solo la misericordia di Dio e la grandezza del suo amore troveranno strade per salvarci da questo disastro. Per questo pregare, anziché scrivere lettere (lo ammetto), è la cosa più santa che si possa fare. Lei, in sovrappiù, può anche dire la verità.
Raffaele Ibba, Cagliari
 
Caro direttore,
la ringrazio per la sua risposta alla lettera, firmata da diversi sacerdoti a proposito del servizio pubblicato su Avvenire dello scorso 8 agosto, dedicata ai soldati italiani in missioni all’estero. La sua articolata risposta, basata sul Magistero costante della Chiesa, in particolare su quello dei Pontefici più recenti (il beato Giovanni XXIII e il beato Giovanni Paolo II) e del Concilio Vaticano II correttamente inserito all’interno della Tradizione, ci aiuta a ricordare la dottrina della Chiesa in materia di pace e guerra. Si rivela più che mai importante l’imminente Anno della fede indetto da Benedetto XVI: come auspica il Papa, bisogna riscoprire il Catechismo della Chiesa Cattolica, i contenuti della nostra fede, in una situazione generale di confusione e ignoranza della dottrina della Chiesa. Il Catechismo è una sicura bussola, come lo definisce il Pontefice: ed evidentemente deve essere ripreso in mano e studiato da tanti. Cordiali saluti
Susanna Manzin, Milano
 
Gentile direttore,
lei ha risposto solo in parte alla lettera dei sacerdoti. Concordo con lei che il tono fosse duro (come a volte succede quando riceviamo un attacco da chi non ce lo aspettiamo) e che si possa essere cristiani e militari. Purtroppo siamo molto lontani dall’ideale e abbiamo visto negli ultimi anni come da nessuna parte gli eserciti intervenuti per portare pace e democrazia siano risusciti nel loro scopo, anzi. Gradirei una sua risposta sulla questione forse più importante: se la cifra spesa per il corpo militare di pace fosse stata spesa per ospedali e corpi civili di pace adesso la situazione sarebbe migliore o peggiore? Dopo questi anni in cui siamo stati presenti militarmente in Afghanistan, in quel Paese c’è più odio o ce n’è meno? I nostri caccia che bombardano i taleban facilitano la pacificazione? La Nato, di cui facciamo parte, contribuisce a portare pace e democrazia nel mondo o in realtà difende solo gli interessi economici dei Paesi occidentali? Da quel che ho capito io i sacerdoti non se la prendevano con i nostri militari morti sul campo, ma con le scelte di chi li ha mandati. E, anche, con chi parla dei morti senza porsi le domande di cui sopra, che sono secondo me il punto fondamentale. Forse se si fosse agito in maniera diversa, avremmo qualche eroe in meno e molte persone (italiane e afghane) vive in più. Cordiali saluti
Enrico Usvelli, Brisighella (Ravenna)
 
Caro direttore,
ho letto la lettera di alcuni sacerdoti, che hanno fatto sfoggio di antimilitarismo acefalo e acorde polemizzando anche con il suo giornale, mi induce a dire la mia. Sono stato in Afghanistan, Africa, Libano e Balcani. Ci sono stato da soldato italiano e in più di un’occasione ho dovuto usare le armi. Ho incontrato operatori umanitari come il dottor Alberto Cairo che da più di vent’anni mette protesi gratis ai mutilati afghani senza neanche lucrare un po’ di pubblicità politicamente corretta per la sua generosissima opera. Ho conosciuto preti, come i nostri cappellani o come monsignor Moretti, da trent’anni a Kabul, rispettatissimo da tutte le fazioni in lotta, che hanno benedetto le salme dei nostri caduti e che ci hanno sostenuto nei momenti più duri. Aggiungo a loro il vescovo, le suore e i preti del Patriarcato ortodosso di Pec e il vescovo e i preti di Dacani che confidano nella nostra presenza per la sicurezza delle piccole comunità serbo-ortodosse sopravvissute in Kosovo. Ma, soprattutto, ho conosciuto moltissimi libanesi, somali, afghani, ruandesi, serbi, croati, bosniaci, macedoni con i quali ho stretto amicizia. Gente normale, che vive nel mondo reale, polveroso, fangoso, puzzolente, spesso freddissimo d’inverno e caldissimo d’estate che orbita al di fuori della porta di casa nostra e nel quale ogni giorno bisogna rischiare la pelle nel difficile (e spesso vano) tentativo di portare a casa qualcosa da mangiare per i propri numerosi figli (il "progresso" dell’aborto volontario da loro trova ancora qualche ostacolo, e per questo erediteranno il futuro). Un mondo reale, appunto, nel quale il ritmo della vita dei poveri è spesso scandito dal fuoco delle armi automatiche dei violenti o, in mancanza di queste, dai machete della tribù avversa. Un mondo nel quale i princìpi pelosi di chi trancia giudizi da certe comode poltrone di casa nostra non valgono niente. Musulmani, che pregano cinque volte al giorno il proprio Dio, e non mangiano e non bevono fino al tramonto per tutto il Ramadan. Cristiani, che all’Elevazione si mettono ancora in ginocchio e che non hanno paura di professare la propria fede anche quando questo non è affatto facile. Ho imparato a rispettarli e ad ammirarli. Tutti. So di essere stato ricambiato, e questo mi basta. Ho servito con disciplina e onore il mio Paese e penso di averlo rappresentato molto meglio di tanti politici, di non pochi uomini di cultura e anche di qualche prete di casa nostra. Non so se era la parte giusta. Ma il Paese era proprio il mio! Sono contento. Cordiali saluti
R.C., un soldato italiano
 
 
Queste quattro lettere non sono le uniche ma sono le ultime che intendo pubblicare sulla polemica, che ho già giudicato male impostata e peggio condotta, contro la pagina che abbiamo dedicato ai caduti e ai feriti italiani nelle missioni militari internazionali alle quali il nostro Paese ha contribuito negli ultimi decenni sempre e solo su mandato dell’Onu (con l’unica eccezione della guerra del Kosovo, 1999). Si tratta di scritti che mi hanno colpito per la diversa forza, per la profondità e per la comune civiltà dei toni. Non ho paura delle polemiche, ma amo la pacatezza tanto quanto amo la verità. Credo che la prima faccia risaltare ogni briciola della seconda, e cerco di raccoglierne più che posso. Facendone tesoro, come faccio tesoro di ciò che la Chiesa – madre e maestra – insegna. E facendo di tutto per mantenere gli occhi sgombri. Anche perché da figlio di una terra di pace, e ricca di ulivi, com’è la mia Umbria ho imparato assai presto (e mai dimentico) che la realtà è una, ma spesso è vista e vissuta in due maniere, proprio come foglia d’ulivo.Quanto alle domande alle quali non avrei risposto, chiarisco ancora una volta che non posso (e non voglio) ripetere ogni volta che qualcuno lo pretende con tono inquisitorio e lievemente insultante (e sia chiaro che non ce l’ho con lei, gentile dottor Usvelli) tutto quello che a me e ai miei colleghi è capitato di scrivere facendo sulle pagine del quotidiano di ispirazione cattolica il nostro mestiere di cronisti e di commentatori. Comunque, in sintesi, ecco qualche punto fermo. Penso che solo gli esaltati, gli insensibili o gli stupidi non capiscano che la realtà della guerra, di ogni guerra, è la tragedia. Penso, come ho scritto domenica scorsa 12 agosto, che se è vero che «non tutto ciò che i soldati italiani impegnati in missioni internazionali» fanno è «perfetto e perfettamente pacifico», è almeno altrettanto vero che oggi «non sono i nostri soldati a seminare guerra e oppressione nel mondo», e comunque non lo fanno né in Afghanistan, né in Libano, né nei Balcani. Penso che solo commettendo una grave ingiustizia si può qualificare come “assassino” chi affronta e cerca di fermare gli assassini, i violenti, i distruttori di civiltà e di speranza. E questo perché penso – come tantissimi uomini e donne cristiani o di altre fedi o visioni filosofiche – che fermare e sconfiggere i nazisti e i loro alleati sia stato giusto e inevitabile eppure questo non mi impedisce di giudicare un terribile misfatto che i “giusti” abbiano deciso di radere al suolo Dresda e di distruggere Hiroshima e Nagasaki. Penso, insomma, che l’«ingerenza umanitaria» contro gli oppressori e terroristi taleban sia stata necessaria e tuttavia affermo (come ho e abbiamo scritto molte volte) che certi bombardamenti e certi atti anti-umani e anti-religiosi di forze della Nato (e per la quale la Nato si è dovuta scusare) siano a loro volta terribili misfatti. Un’ultima battuta, sul “costo” del soccorso militare ai Paesi scelti dalle Nazioni Unite. Vorrei non soltanto che il costo della missione italiana in Afghanistan, ma che tutto ciò che si spende in armi venisse, invece, destinato a investimenti per debellare la fame nel mondo, per sconfiggere le malattie che fanno strage soprattutto tra i poveri, per creare lavoro, per educare nella libertà le nuove generazioni. Spero, e mi sforzo di fare qualcosa, perché questo accada. Ma vorrei – e continuo a reclamare – ogni ragionevole certezza (è solo un esempio, ma niente affatto casuale) che tutti i bambini e tutte le bambine siano tenuti sullo stesso piano ricevendo ovunque le stesse occasioni e attenzioni. E vorrei che ovunque le donne e i diversamente credenti (quasi sempre i cristiani) non fossero confinati in una umiliante sotto-categoria dell’umano. So bene che non è per questi nobili motivi che gli uomini da millenni si fanno la guerra, ma senza di essi, e senza persone disposte a battersi per essi, non si costruisce davvero la pace.
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