giovedì 19 gennaio 2017
Il dialogo con le nostre realtà locali e le esperienze positive di impegno daranno buoni frutti
Migranti al lavoro nei campi a Gioia Tauro, Calabria (T. Mira)

Migranti al lavoro nei campi a Gioia Tauro, Calabria (T. Mira)

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La vicenda è poco nota, ma il collegamento con l’attualità salta agli occhi. Era il 1879 e Robert Louis Stevenson, non ancora il romanziere che conosciamo, fece un viaggio negli Stati Uniti. Nato da una infatuazione sentimentale, il viaggio si trasformò in uno studio sull’emigrazione e diede origine a due scritti: L’emigrato dilettante e Attraverso le pianure. Viaggiando su nave in terza classe, Stevenson aveva cominciato a capire che l’emigrazione non era quell’epica avventura che politici e opinione pubblica europea volevano credere. Sul treno verso la California poi, lo scrittore si accorse di essere in mezzo a due onde umane: una che andava in cerca di fortuna, l’altra che riportava i naufraghi di quell’avventura. E dai reduci affacciati ai treni che correvano in senso contrario usciva, come da un «coro lamentoso», un invito pressante: «Tornate indietro!».

Anche oggi si levano voci che invitano la gioventù a riflettere su rischi e pericoli prima di mettersi in viaggio. Lo ha fatto, ultimamente, anche la cantante del Mali Rokia Traorè. Ci ho riflettuto, ne ho parlato con i miei allievi profughi africani e ho concluso che solo questa gioventù sarà capace di gestire in modo più accettabile un flusso finora disordinato. Possono farlo, questi giovani, se non li trasformeremo in vinti che, vivendo in condizioni estreme come quelle del centro di Cona, perdono coraggio e dignità. Per prima cosa – a mio parere – si dovrà mettere nuovamente in programma la vecchia 'cooperazione', che aveva dato nei primi anni 80 del secolo scorso dei buoni risultati. In questa prospettiva, il periodo nel quale i migranti attendono di essere convocati dalle Commissioni, può essere bene utilizzato. Lo dimostrano, al di là della 'faccia feroce' dei Cie e del terrorismo mediatico in cui si sono specializzate alcune reti televisive, le esperienze positive di accoglienza.

Il Centro della Croce Rossa Italiana col quale collaboro è attrezzato per una trentina di persone. Se il numero non si appesantisce per le emergenze, le cose funzionano. Questi giovani imparano alla svelta la nostra lingua. Se qualcuno è poco scolarizzato, nasce un gruppo che lo sostiene nel recupero: basta una piccola lavagna e qualche gessetto. I profughi cristiani frequentano le chiese e partecipano alla vita delle parrocchie. Tutti indistintamente offrono e danno collaborazioni di lavoro volontario alle istituzioni culturali ed educative locali. Qualcuno è inserito in società sportive di centri vicini. Ma la nostra è zona montana e per alcuni lavori occorre una copertura assicurativa. Vale per la gestione dei boschi, il recupero dei castagneti, la riattivazione dei pascoli comuni, la pulizia dei sentieri. Non si riuscirà forse a tenere attivi questi giovani nei mestieri esercitati in precedenza. Avremo però evitato un delitto che il futuro ci rimprovererà duramente: lasciare a lungo inattiva una gioventù capace e generosa e che non ha bisogno di diktat per rimboccarsi le maniche, ma delle occasioni e delle condizioni per farlo davvero utilmente per sé e per le comunità di inserimento.

E allora faccio una proposta 'eretica': usiamo per il lavoro dei migranti – magari con le opportune correzioni – i vituperati 'voucher'. Il dialogo con le nostre realtà locali e le esperienze positive di lavoro potranno attrezzare questi giovani a essere poi nel loro Paese di origine, se lo vorranno, referenti attendibili per realizzare progetti di cooperazione.

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