giovedì 30 gennaio 2020
Il contributo di un primo presidente emerito della Corte di Cassazione al dibattito in corso
Prescrizione: come correggere la riforma senza cancellarla

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La prescrizione del reato è un argomento tecnico diventato di massima attualità politica. Si è prodotta un’ampia e accesa discussione, ma, per lo più, non chiara. Da qui l’utilità di porre innanzitutto qualche punto fermo. Il primo: occorre distinguere tra le diverse prescrizioni. Il fenomeno negativo più grave, e quindi da combattere in via prioritaria, è la prescrizione del reato che si verifica durante lo svolgimento del processo, quando è stata già esercitata l’azione penale. Un processo iniziato deve pervenire al suo risultato naturale, che è l’accertamento della verità (più precisamente: della fondatezza dell’accusa). Un processo ancora in corso che si conclude con la dichiarazione di prescrizione va considerato un 'aborto'.

Evidentemente è più grave che l’'aborto' si verifichi non durante il giudizio di primo grado, ma nel corso delle fasi di impugnazione (appello o Cassazione). In quest’ultimo caso si ha sempre uno spreco delle attività precedentemente compiute e, in aggiunta eventuale, l’ingiustizia di mandare esente da pena una persona dichiarata responsabile in una o più sentenze precedenti e, se mai, rea confessa (potendo l’impugnazione riguardare soltanto il tipo di reato commesso). Con il grave fenomeno qui considerato non va confusa la prescrizione del reato che matura prima della eventuale instaurazione del processo. In questo secondo caso il tempo non breve trascorso dal fatto può averne determinato nella collettività l’oblio (che è la giustificazione principale della prescrizione). Il sentimento di oblio del fatto è incompatibile con la sua memoria che, al contrario, si rinnova attraverso la celebrazione del processo. La prescrizione che si verifica prima dell’eventuale inizio del processo è un fenomeno diverso, molto meno grave, e richiede un discorso del tutto differente, da fare semmai in altra sede.


La legge non può produrre alcun effetto in questo anno e nei prossimi, perché si applica solo ai reati commessi dal 2020


Il secondo punto fermo: il Parlamento ha approvato, nel 2017, un rimedio di cui non si possono ancora conoscere gli effetti. Per impedire la prescrizione che maturi nel corso delle impugnazioni (e quindi la situazione nettamente più grave), è stata approvata, nel giugno 2017, la legge n.103, la quale ha allungato, in determinate ipotesi, i tempi previsti per queste fasi processuali. È impossibile ancora oggi conoscere se questa legge avrebbe raggiunto il suo scopo, perché è troppo breve il tempo trascorso da essa. Non ostante l’ignoranza dei suoi effetti, essa è stata superata da una successiva legge (n. 3 del gennaio 2019), entrata in vigore all’inizio di quest’anno.

Eccoci dunque al terzo punto: al precedente rimedio se ne è sovrapposto un altro, che però non ha effetti immediati, né potrà averne nei prossimi quattro anni. La legge entrata in vigore il 1° gennaio 2020 si differenzia dalla precedente del 2017 perché, anziché allungare il periodo di tempo necessario per il maturarsi della prescrizione, ha disposto, più radicalmente, che la prescrizione non può essere più dichiarata dopo la sentenza di primo grado (di condanna o di assoluzione dell’imputato). Si è pubblicizzata la legge affermando che essa ha abolito la prescrizione. Ma la verità è che essa non può produrre alcun effetto nell’anno in corso e nei prossimi anni, perché si applica soltanto ai reati commessi dal 2020 in poi, mentre per i reati commessi anteriormente trova applicazione la legge precedente, anche se per essi il processo si celebrerà quest’anno o negli anni successivi. Poiché il tempo minimo di prescrizione è di quattro anni (per le contravvenzioni), un fatto commesso quest’anno non potrà maturare il periodo di prescrizione prima del prossimo quadriennio (salvi gli allunghi determinati da eventuali atti interruttivi).


È possibile intervenire per rispettare la Costituzione sulla ragionevole durata dei processi e al contempo evitare l’effetto «abortivo» di un procedimento in atto

Quarto punto: il nuovo rimedio non è conforme alla Costituzione. La legge in vigore dall’inizio di questo anno non è conforme, infatti, all’ art. 111 della Costituzione, che impone al legislatore di assicurare la «ragionevole durata» del processo. La nuova legge non ne prevede più un limite di durata, onde può aversi una situazione – non probabile, ma possibile – di «fine processo mai». Perciò, e siamo al quinto punto, occorre rendere il nuovo rimedio conforme alla Costituzione, ma senza tornare a soluzioni 'abortive'. L’inaccettabile situazione indicata nel punto precedente non può infatti mutare la valutazione di effetto 'abortivo', anche esso inaccettabile, che si è data alla dichiarazione di prescrizione che intervenga nel corso delle fasi di impugnazione. Con la differenza che questo secondo effetto si è finora verificato molto più frequentemente di quanto sia prevedibile che possa aversi in futuro il primo, e cioè la durata indefinita di un processo.

Accettano, invece, l’'aborto' del processo per effetto del solo decorso del tempo le proposte, da più parti formulate, che aggiungono alla prescrizione del reato la possibilità di estinzione del processo o di prescrizione processuale. Queste proposte non mutano l’effetto sostanziale della prescrizione del reato: anche esse rendono inutile un processo che si è svolto in uno o più gradi, rinunziando alla finalità di accertamento per cui esso è stato instaurato, e mandano esente da pena un possibile o, in alcuni casi, sicuro responsabile. In qualche proposta (come in quella n.2306, presentata alla Camera il 18 dicembre 2019), non sono esclusi dalla estinzione del processo neanche i reati da sempre imprescrittibili (come, per esempio, la strage).


Il fenomeno negativo più grave, e quindi da combattere in via prioritaria, è la prescrizione del reato che si verifica durante lo svolgimento del processo, quando è stata già esercitata l’azione penale


Si può perciò concludere che occorre assicurare la durata ragionevole del processo, ma senza accettare che la prescrizione del reato (effetto ed espressione dell’oblio del fatto) possa maturare quando si celebra, attraverso il processo, la memoria di quel fatto. Ben venga, ovviamente, ogni tentativo di rendere il processo penale meno lungo, ma ciò richiede personale e strutture materiali più che modifiche legislative. Qualunque intervento migliorativo non potrà, però, escludere che si verifichino casi in cui si abbia una violazione del diritto dell’imputato alla durata ragionevole del processo, senza che ciò sia a lui addebitabile. Per prevenire e, se necessario, risarcire tale violazione occorre prevedere dei rimedi, nella consapevolezza che la lunghezza di un processo penale produce normalmente effetti più gravi del protrarsi di un giudizio civile.

Al riguardo, proposte interessanti sono state elaborate dalla dottrina giuridica. È qui sufficiente un loro rapido richiamo. Nel caso di un processo che abbia avuto una durata non ragionevole si è proposta una riduzione della pena commisurata alla entità della sua durata e determinata dalla stessa sentenza di condanna. Nell’ipotesi di assoluzione dell’imputato, ma in esito a un processo di durata eccessiva, può ipotizzarsi un risarcimento pecuniario ben maggiore dell’indennizzo previsto per la lunghezza degli altri tipi di processo, che, soprattutto, venga liquidato dallo stesso giudice che pronunzia la sentenza tardiva, anziché nell’apposito giudizio che occorre, invece, instaurare per ottenere, negli altri casi, il detto indennizzo.

Primo Presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione

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