martedì 6 novembre 2012
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Green economy, cioè agricoltura, cioè possibilità di creare 100mila posti di lavoro entro tre anni. Mentre gli altri settori produttivi annaspano tra i tentacoli di una crisi che morde sempre di più, vari segnali confermano che verrà dal mondo dei campi un antidoto efficace alla disoccupazione soprattutto giovanile, e intanto un’analisi targata Coldiretti evidenzia come per la prima volta dopo dieci anni l’agricoltura italiana si sia messa ad assicurare nuove possibilità di impiego, in controcorrente rispetto all’industria e al terziario. Non torneremo agli anni Quaranta del Novecento quando un lavoratore su due era contadino, tuttavia tra i giovani l’appeal della campagna è crescente: negli ultimi mesi le imprese gestite dagli under 30, che ormai sembrano snobbare la banca o la multinazionale, sono aumentate di oltre il 4%. Un dato positivo, non v’è dubbio, un buon segno che può trasformarsi in un’ottima occasione di rilancio dell’economia e di crescita del Pil se questa manifesta tendenza al ritorno alla terra – a volte scelta obbligata perché non si trova altro, ma spesso frutto di una decisione consapevole e meditata – si incrociasse con misure concrete di sostegno e incoraggiamento. Perché un dato è indiscutibile: nessuno può improvvisarsi agricoltore dalla sera alla mattina inseguendo i miti di un mondo che non esiste più o il miraggio di una improponibile Arcadia, pena brucianti sconfitte e onerosi fallimenti, nel senso tecnico del termine. Fare agricoltura è fare impresa; una formazione specifica di chi sceglie questa strada è imprescindibile.Un tempo il contadino apprendeva empiricamente dal padre le nozioni sufficienti alla conduzione del vigneto, della stalla, del coltivo. Oggi l’agricoltore è un tecnico di alta specializzazione, deve sapere di chimica e di agronomia, di meccanica e di zootecnica, di estimo e di economia, di pratiche mercantili e di dinamiche dei mercati. Un diploma spesso non basta, una laurea in scienze agrarie è un passaporto per il successo nella green economy, tant’è vero che molti dei giovani imprenditori agricoli sono laureati di università chiamate ad aggiornare rapidamente i corsi di studio per formare professionisti aperti all’innovazione.L’agricoltura poi ha bisogno di altro, e condivide in questo le aspettative del resto del mondo produttivo: meno burocrazia e meno scartoffie, meno lacci e lacciuoli, meno norme assurde di ardua interpretazione e più libertà di intraprendere. Avrebbe bisogno anche di meno tasse, ma le recenti disposizioni relative all’Imu sui fabbricati rurali e sui terreni vanno nella direzione opposta allo sviluppo di una attività che non chiede incentivi di tipo assistenzialistico, ma solo un sistema fiscale non oppressivo. Capitolo a parte è il credito. Il capitale impiegato in agricoltura offre in genere un rendimento basso, non competitivo con altre forme di investimento, e tuttavia costante, non soggetto ai capricci dei mercati finanziari. Assicurare ai giovani operatori il denaro per avviare l’attività e per la conduzione dell’impresa può essere, per chi dispone di soldi, una forma interessante di messa a frutto dei risparmi.Va da sé, infine, che per fare agricoltura ci vuole il suolo coltivabile. In Italia è sempre più raro (finalmente il governo intende opporsi alla rapina dei terreni cancellati dall’asfalto e dal cemento) e sempre più caro: un ettaro di vigneto di qualità può costare centinaia di migliaia di euro. C’è il rischio che di fronte alla voglia dei giovani di tornare all’agricoltura si debba assistere all’affissione di un cartello di tutto esaurito nelle zone più fertili della penisola, e sarebbe grave, gravissimo. Sarebbe la fine delle speranze di gran parte di quei 100mila che in campagna possono trovare una occupazione e un futuro e che non chiedono molto alla politica e al Paese: solo formazione, normative ragionevoli, forme di credito accessibili e – soprattutto – un pezzo di terra.
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