In Italia un calciatore non riesce neppure a diventare presidente della "sua" Federazione, eppure in certe aree del mondo l’uomo che per mestiere vive inseguendo un pallone ha più seguito dei governanti. Questo perché tra dittature mascherate da democrazie, guerre fratricide, scontri senza esclusioni di colpi tra opposte fazioni, ci sono popoli che hanno perso gradualmente fiducia nei professionisti della politica. Del resto, non esiste un solo Paese, anche il più piccolo e il più remoto in cui non sventoli la bandiera universale del football. Non c’è angolo del pianeta, dalla jungla alle falde del Kilimangiaro, da un prato verde sotto il cielo d’Islanda fino alla polvere della favela brasiliana, in cui, anche in questo istante, non rimbalzi un pallone o sia in corso una partita. Questo è il «potere del football», professato in tempi non sospetti dagli “intellettuali in rivolta”, i calciofili Camus e Pasolini, sino agli insospettabili “pensatori con i piedi”: Borges e Kapuscinski. Il calcio, specie in alcuni Paesi a rischio, rappresenta una forma di “resistenza civile” e la conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno, arriva dalla finta elezione a presidente dell’Egitto di Mohamed Salah.
Il bomber egiziano del Liverpool ha da poco castigato in Champions il Manchester City di Pep Guardiola – e ora è pronto per la semifinale: la sfida contro la Roma, sua ex squadra – pur non candidandosi alle recenti elezioni presidenziali ha ricevuto oltre un milione di voti. Più consensi addirittura di Moussa Moustafa Moussa, l’unico candidato opposto al rieletto Al Sisi. Ma provate a immaginare se Salah si fosse candidato davvero. Al di là di tutti i possibili boicottaggi alla sua eventuale discesa su un altro campo, come quello minato della politica egiziana, siamo sicuri che l’esito delle presidenziali sarebbe stato così scontato? Il 26enne “Momo”, è dimostrato dal consenso elettorale, è un idolo assoluto delle folle, e non solo di quelle degli stadi. Il suo gol in “zona Salah” al 93’ (rete dell’1-1 con la Nigeria) con il quale l’Egitto ha strappato il pass per i prossimi Mondiali di Russia, vale molto di più di una semplice qualificazione sportiva. È un pezzo di storia e di riscatto sociale, grazie a quello che il popolo lo considera il “Faraone Momo” o anche la “Quarta piramide d’Egitto”.
Pertanto quel milione di voti, sia pur virtuali, danno delle indicazioni sociologiche che vanno ben oltre un campo di calcio. Salah non è solo un calciatore ricco e famoso ma un modello unico di generosità: ha donato quasi 500mila euro negli ultimi due anni per finanziare progetti di sviluppo nel suo Paese. In Egitto non è tornato per le votazioni, ma ogni anno, non dimentica di portare il suo personale soccorso: nel periodo di Ramadan prende un aereo per il Cairo e alla sera, terminato il digiuno, si occupa di portare pasti caldi ai poveri della capitale. La sua storia ricorda un po’ quella di Frédéric Oumar Kanoutè, ex bomber del Siviglia che nella sua terra, il Mali, con i soldi guadagnati con il calcio ha realizzato la “Città dei Bambini”: una casa d’accoglienza per i giovani emarginati della capitale Bamako. Un eroe nazionale anche Kanoutè, uomo socialmente impegnatissimo, “hombre vertical” sempre pronto a dire «no» alle ingiustizie, fin dai tempi in cui giocava. A Siviglia si rifiutò di indossare la maglia che sponsorizzava una società di scommesse e il gioco d’azzardo. Motivazione? «Mettere quella casacca con quello sponsor è contrario ai miei principi etici e religiosi».
Gesti che nell’immaginario collettivo rimangono, e la figurina del calciatore assume i tratti della gigantografia che oscura i cartelloni dei candidati alle elezioni. Super poster anche per l’olandese volante Clarence Seedorf che nella materna Paranaribo, in Suriname, ha impiantato “Champions for Children”, realtà non profit che si occupa anche dei ragazzi abbandonati di Johannesburg. Il Sudafrica sta molto a cuore pure al francese campione del mondo Patrick Vieira, simbolo del Senegal non solo calcistico, il quale ha trasferito da Dakar a Johannesburg parte del progetto della scuola calcio, “Konfidence Foundation”. Il bomber ivoriano Didier Drogba a 40 anni suonati gioca negli Stati Uniti, milita nel Phoenix Rising, e se ancora non appende gli scarpini al chiodo è per foraggiare l’ospedale per i bambini orfani di Abidjan. Impresa solidale iniziata con una donazione di 3 milioni di dollari ai tempi in cui Drogba era la bandiera del Chelsea del magnate russo Abramovich e che ora assiste centinaia di piccoli senza famiglia della Costa d’Avorio.
È il cuore grande dei campioni quello che colpisce dritto al cuore della gente. Ciò che per anni i governi promettono senza mantenere, i fuoriclasse del calcio spesso lo realizzano, in fretta e con fondi propri, mettendoci la faccia. Volti universalmente riconosciuti al punto che l’ex asso di Arsenal e del City Emmanuel Adebayor in Togo è l’ambasciatore del programma Onu per la lotta all’Aids. I giovani del Burundi sognano un futuro come quello del loro connazionale Christophe Nduwagira, centrocampista classe 1994 dell’União Leiria. In Portogallo Nduwagira c’è arrivato grazie al benestare firmato dallo stesso “presidente-calciatore” Pierre Nkurunziza. Un despota della categoria pseudodemocratici il 54enne premier del Burundi che, con referendum fintamente popolare, sta per fare approvare la legge che gli consentirà di restare saldo al governo del «Paese più infelice del mondo» (ultimo posto certificato dal report di World Happiness) fino al 2034. Nel frattempo si mantiene in forma «giocando a calcio tre volte alla settimana» con la sua formazione privata, l’Alleluja Fc. Predilige la zona, Nkurunziza, ma non accetta marcature strette nei suoi confronti: due diplomatici che hanno provato a stopparlo in campo sono finiti davanti al tribunale di Stato con l’accusa pesantissima di «complotto contro il Presidente». Squalificati a vita, ammesso che siano ancora vivi.
Vitale, gioca e si diverte ancora, democraticamente, come quando mandava in visibilio i tifosi del Milan con i suoi leggendari “coast to coast” è invece il presidente della Liberia, George Weah. L’ex “Re George” degli stadi, primo Pallone d’Oro (1995) africano nella storia di cuoio, rappresenta la grande speranza per la Liberia afflitta da quella banalità del male che ha causato due guerre civili e la piaga di Ebola che ha causato 250mila morti. La fotografia tragica di un Paese in cui il 54% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, «un milione e 300mila persone sono in condizioni di indigenza estrema», ha sottolineato di recente Weah. Pertanto la sua presidenza è il risultato di una fiducia allargata a un uomo che conosce lo spirito di squadra e per essa è disposto a sacrificarsi, specie quando quella squadra è la sua Liberia. «Nel Milan ho imparato più che in ogni altra società. Quando c’è un problema in un’organizzazione, come per esempio il governo di uno stato, è perché tutti pensano ai fatti loro», ha gridato Weah dal palco del comizio presidenziale. Parole chiare, dirette, recepite al volo anche dall’ultimo liberiano che, magari, non è mai entrato in uno stadio di calcio.
Messaggio non troppo distante da quello che avrebbe lanciato l’ex portiere del Racing Universitaire d’Alger, Albert Camus, il quale senza aver provato l’emozione di parare un rigore, magari non avrebbe mai scritto L’uomo in rivolta o Lo straniero. E se milioni di persone hanno letto e continueranno a leggere Camus, forse è anche perché condividono questo suo pensiero esistenziale: «Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio».