martedì 22 gennaio 2013
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Il conflitto maliano assume sempre più la connotazione di un nuovo episodio della "guerra mondiale" in corso, il primo combattuto in terra africana dalla fine del colonialismo. In effetti, già alla fine degli anni Novanta, la stampa internazionale aveva utilizzato questa terminologia riferendosi alla crisi congolese in cui erano coinvolti molti Paesi africani, tra cui l’Uganda e il Ruanda. Nel caso del Mali, gli interessi in gioco e, soprattutto, il coinvolgimento delle cancellerie che contano sono tali da profilare uno scenario che potrebbe avere serie ripercussioni sugli attuali equilibri geostrategici. Ecco perché sarebbe auspicabile che la comunità internazionale, nelle sue molteplici articolazioni politiche e istituzionali, mettesse in cantiere iniziative davvero risolutive rispetto a un quadro militare sempre più inquietante. Tutti vorremmo sconfiggere il terrorismo, che già tanti disastri ha causato, in giro per il mondo, a partire dalla strage delle Torri Gemelle. D’altra parte sarebbe auspicabile che fossero riconsiderate le procedure decisionali degli organismi internazionali come l’Onu, troppe volte messe di fronte al fatto compiuto; come anche sarebbe necessario valutare con migliore oculatezza la risposta più adatta alla costante minaccia terroristica, essendo ormai sufficientemente chiaro, guardando alle esperienze del passato, che gli interventi militari non possano essere risolutivi nello scontro asimmetrico contro il jihadismo. Pertanto viene spontaneo chiedersi come mai il dialogo, in sede internazionale, prescinda da un confronto franco e diretto tra l’Occidente e il mondo islamico che, nella Lega Araba, dovrebbe trovare l’interlocutore privilegiato. Non foss’altro perché il jihadismo di matrice salafita, che ha trovato collocazione e riconoscimento sulla sponda africana del Mediterraneo, ha il radicamento nel contesto mediorientale e la sua genesi nel wahhabismo saudita. E cosa dire dei convogli del narcotraffico latinoamericano, che da anni – come questo giornale ha documento – procedono spediti lungo la direttrice maliana, senza che vi sia mai stata premura alcuna nel vigilare sui porti d’approdo in Guinea Bissau, Liberia e Ghana? Non sarebbe ora che si arginasse quel commercio che non solo genera morte e distruzione nel Vecchio Continente, ma foraggia lautamente i gruppi eversivi che oggi imperversano nel cuore nevralgico del Sahel? Sarebbe importante che l’Europa fugasse ogni dubbio o minimo sospetto sulle reali intenzioni di Parigi. Chi e come pagherà, ad esempio, la protezione offerta al Mali contro gli estremisti islamici? Questo intervento armato francese non può rappresentare, ancora una volta, il pretesto per perpetuare il "neocolonialismo" di cui la <+corsivo_bandiera>Françafrique<+tondo_bandiera> è stata un’espressione eloquente. L’Europa è in grado di offrire garanzie a questo riguardo, considerando che la regione settentrionale del Mali è ricca di oro, petrolio ed uranio? E i Brics, che considerano il business con l’Africa una priorità nella loro agenda, da che parte stanno? A parte la Russia, disponibile a fornire aiuto logistico, sembrano essersi defilati. È bene infatti rammentare che la situazione umanitaria in Mali peggiora di ora in ora per i civili stretti nei combattimenti. Considerando la battaglia che imperversa per la liberazione dell’Azawad, è prematuro pensare di allestire corridoi umanitari, ma occorre mobilitarsi nel garantire la "logistica del cuore", quella della solidarietà, rispetto alle centinaia di migliaia di profughi, tra rifugiati e sfollati, che stanno pagando a caro prezzo una partita senza precedenti nella storia del continente.
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