venerdì 12 aprile 2013
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Non è più tempo di 'piccolo è bello', non sarà mai tempo di 'grande è necessario'. Per l’impresa di casa nostra non esiste una dimensione aziendale di riferimento sganciata dalla specifica combinazione strategica adottata: diverse imprese possono essere di successo con dimensioni di fatturato, di occupati, di numero di capannoni, di quote di mercato molto diverse tra di loro. La coerenza realizzata tra strategia e organizzazione propone casi di successo, che vanno riconosciuti come tali, con dimensioni aziendali le più varie e questo permette di concludere che si tratta di una variabile gestionale che, al pari di altre, non è mai variabile indipendente. E tuttavia, di quattro milioni e rotti di imprese molto più del 90% sono di piccola, se non piccolissima dimensione. Ciò continua a essere denunciato come un limite del nostro modello industriale, pochi hanno invece cercato di comprendere come questa realtà sia nata e perché si sia consolidata nel corso degli anni. Senza questo approfondimento risulta vano anche il tentare di superarla, posto che ciò sia – e non è il mio parere – utile farlo. Avanzo quattro possibili spiegazioni, tre di natura storico-strutturale, una più strategica. In un Paese con più di ottomila municipi, dove l’85% della popolazione vive in Comuni con meno di diecimila abitanti, la maggioranza delle imprese ha sede dove l’azienda è stata fondata pochi o tanti anni prima e che quasi sempre è uno di quei piccoli centri dove l’imprenditore è nato o risiede. Questi luoghi d’Italia, in molti casi dalla ricca tradizione anche artigianal-professionale, e per cui l’impresa rappresenta una delle poche occasioni occupazionali sono, al tempo stesso, garanzia di fiducia per l’imprenditore nei rapporti con l’amministrazione, il credito e il mercato del lavoro. Si sono venute a creare nel tempo, dunque, reciproche barriere all’uscita sempre più alte e, conseguentemente, difficoltà a crescere oltre una certa misura proprio per le caratteristiche intrinseche di quei luoghi. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha inoltre contribuito, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, a far percepire come vantaggiosa la piccola dimensione per la prevista possibile assenza del sindacato. Ciò ha addirittura contribuito ad avviare il processo di deverticalizzazione di molti processi produttivi fino ad allora fortemente integrati: per intenderci, da un’azienda di novanta addetti si passava a sei da quindici, tutte presenti sul medesimo territorio dell’impresa-madre. Nacque così, per paura e in difesa, l’Italia dei distretti con gli stessi problemi del localismo descritti poco sopra. Tuttavia, e siamo alla motivazione strategica, questa fase permise alle aziende di sperimentare negli anni Novanta i buoni possibili risultati di una strategia di nicchia fondata su qualità, innovazione e servizio più che su quantità, economie di scala e prodotti standard. Ciò in un mondo, come quello di oggi, che dimostra di apprezzare, nel senso letterale del termine, sempre più lo 'stile italiano' in ogni settore con gli ottimi risultati delle nostre esportazioni a sottolinearlo anche in anni difficili come questi. Se il mondo naturalmente ci chiede, per capirci, più Ferrari che Fiat è bene continuare a operare con quelle dimensioni, non con le altre che finirebbero inevitabilmente con lo snaturare il prodotto finale. Ed è altrettanto evidente che, al contrario, le opportunità competitive di Fiat risiedono, oltre che nell’investimento in nuovi modelli, nell’ulteriore aumento delle proprie dimensioni aziendali, anche attraverso accordi e acquisizioni. Ma quanto il prodotto Fiat è realmente rappresentativo del Made in Italy? Molto poco. Infine, ed è forse l’unico elemento vincolante in negativo, se per fondare un’impresa occorre imprenditorialità, per farla crescere serve managerialità. Della prima il Paese ne possiede quantità diffuse e innate, ed è una grande fortuna, della seconda scarseggia. Nessuno studente, in nessuna fase della propria vita, viene da noi a specializzarsi in management, molti ci vengono per conoscere e studiare la vitalità del nostro fare impresa. Possiamo migliorare, ma partiamo da troppo indietro per sperare di recuperare rapidamente le necessarie competenze: basti dire che in giro per il mondo in posizioni di alta responsabilità aziendale ci sono solo una cinquantina di manager italiani e, saltando di palo in frasca, che non abbiamo mai goduto di grandi tradizioni militari, antica fucina di pratiche manageriali ante litteram. Queste quattro motivazioni ci dicono perché, nel bene e nel male, forse ci conviene continuare a puntare su un modello originale di sviluppo che ha anche nella minore dimensione delle sue aziende una delle caratteristiche peculiari. ​
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