venerdì 29 gennaio 2010
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Il piano straordinario di ispezioni contro il lavoro nero al Sud, varato ieri dal Consiglio dei ministri a Reggio Calabria, è un’azione utile e necessaria, fortemente attesa dopo i fatti di Rosarno. Non sufficiente, però, a risolvere il problema se non verrà seguito da un contemporaneo scatto in avanti della società civile e da qualche aggiustamento nelle politiche di regolazione dell’immigrazione.Con i 550 ispettori sguinzagliati nelle campagne e nei cantieri di Calabria, Puglia, Campania e Sicilia, lo Stato torna finalmente ad aprire gli occhi sulla realtà di sfruttamento e di degrado connesso al lavoro irregolare. Riafferma una presenza, ribadisce che non esistono "zone franche", ripristina la sovranità della legge. È qualcosa che deve stare a cuore a tutti i cittadini non per un’astratta idea della "legalità", d’un burocratico rispetto di regole e doveri fiscali, che qualcuno potrebbe ritenere eccessivi o intralcianti l’attività economica. Ma per il fatto – sostanziale – che attraverso l’osservanza delle leggi, dei contratti di lavoro, delle norme fiscali e previdenziali si garantisce anzitutto la salvaguardia della vita delle persone, la loro dignità. E poi il corretto sviluppo delle comunità, il benessere dei cittadini. Forse è bene ricordarlo: il lavoro nero uccide e distrugge. Per lo sfruttamento che è alla base di molti infortuni e direttamente per la violenza dei caporali, come è accaduto in Puglia con la "sparizione" di alcuni lavoratori polacchi. Ma lo sfruttamento della manodopera, in particolare straniera e clandestina, è anche il primo anello di una catena fatta poi di evasione fiscale, di truffe all’Inps e all’Unione Europea, di finte pensioni e sussidi non dovuti, di degrado e malavita. Una catena che finisce per imbrigliare in particolare il Mezzogiorno, strozzarne lo sviluppo, soffocare coscienze e spirito d’iniziativa.Questo dev’essere chiaro. Qui non si tratta "solo" di far sì che ogni lavoratore sia assicurato, protetto da tutele, riceva una "giusta mercede". Ma di evitare che troppi imprenditori si adagino sulla raccolta di frutti senza più mercato, utilizzando lo sfruttamento degli "schiavi" come unico vantaggio competitivo. Si tratta di impedire che interi paesi vivano grazie ai sussidi di disoccupazione per braccianti, lucrati senza mai mettere piede in un campo. No, in gioco non c’è il versamento di un contributo in più o in meno, ma la scelta – decisiva – di quale messaggio si dà in particolare ai giovani: "Rispettate le regole, lavorate d’impegno e la vostra vita migliorerà". Oppure: "Andate da un compare, da un boss, chiedetegli un piacere, procuratevi una pensione, fatevi sottomettere".Se però è questo – e secondo logica lo è – il valore sotteso al piano straordinario messo a punto dal ministro Sacconi, l’opera di ispezione e repressione da sola non può essere sufficiente. Occorre un impegno corale di parti sociali e associazionismo nel Meridione. Lo abbiamo già scritto: i padroni e i padroncini sono noti in ogni comunità. Il controllo e la riprovazione sociale verso chi sfrutta i lavoratori, il non farsi complici indiretti delle irregolarità, sono un imperativo morale e un’arma efficace a nostra disposizione. La lotta al lavoro nero va assunta come asse centrale, portante, del progetto educativo nelle nostre comunità. E la scelta di Confindustria di espellere le aziende coinvolte in azioni mafiose o acquiescenti è un passo forte in questa direzione.Ma, se di giustizia stiamo parlando, c’è un ultimo aspetto che non si può eludere: non si può porre sullo stesso piano sfruttatori e sfruttati: comminare qualche sanzione agli imprenditori, che rifiutano la legge, ed espellere gli immigrati, perché entrati in maniera scorretta nel Paese. Un’operazione di «regolarizzazione» definitiva degli uni e degli altri si impone. Va pensata e soprattutto ben costruita.
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