venerdì 27 gennaio 2023
Ricordare la Shoah durante un conflitto che sembra di un altro tempo. Un errore riesumare oggi il mito della vittoria
Distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione nell’Ucraina devastata dalla guerra

Distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione nell’Ucraina devastata dalla guerra - .

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Quest’anno la Giornata della Memoria della Shoah cade in un momento davvero tragico per l’Europa e per il mondo. Siamo nel bel mezzo di una guerra drammatica. In Ucraina, l’invasione delle forze armate di Vladimir Putin ha creato un’immediata risposta militare da parte del Paese colpito. Dopo quasi un anno, una stima approssimativa porta il conteggio totale dei morti a circa 250mila (esito paragonabile a quello delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki). Si aggiungono anche più di un milione di feriti e almeno 4 milioni di profughi.

Fatto salvo che si tratta di una guerra d’altri tempi nella logica tradizionale invasore- invaso con Putin e il suo esercito nel ruolo dell’aggressore, anch’io ritengo che usare oggi la stessa risposta del passato generi non solo un enorme equivoco, ma un conteggio di morti, di stragi e di uccisioni davvero smisurato. Su questo giornale si continua a documentare e ad argomentare molto e in profondità a questo riguardo, intercettando sentimenti e consapevolezze di gran parte dell’opinione pubblica italiana. Siamo, infatti, nel pieno di una crisi gestita malissimo anche sul nostro versante occidentale, dall’Unione Europea, dalla Nato e dagli Stati Uniti d’America. Viene seguita un’improponibile logica binaria, quella del vincitore-vinto, del cercare la vittoria a tutti i costi e quindi del combattere la guerra fino alle estreme conseguenze. Che possa diventare – o sia già diventata, come ammonisce papa Francesco – una Terza guerra mondiale (non più a pezzi) e che l’escalation continua possa addirittura portarci a uno scontro nucleare che distruggerà il pianeta, poco importa. Conta “vincere”, senza alcuna considerazione delle conseguenze di questo ragionamento sconsideratamente privo di memoria.

Qual è la memoria che manca? Sarei molto tentato di sottolineare come la retorica di vincere sul nemico appartenga ai peggiori dispotismi del Novecento, in primis il nostro lugubre fascismo mussoliniano, quando, il 10 giugno 1940, dal balcone di piazza Venezia, il duce arringava la folla al motto “Vincere! E vinceremo!”. Ma mi pare un ragionamento troppo ovvio e scontato. In fondo, la retorica della guerra, da una parte e dall’altra, si nutre sempre degli stessi topos senza grande riguardo verso il buonsenso e la logica. Anche il ricordare il numero – stimato – dei morti della Prima e Seconda guerra mondiale (circa 30 milioni la prima e quasi 70 milioni la seconda) rischia di non sollecitare una riflessione. I grandi numeri non ottengono mai l’effetto desiderato, come se ci proiettassero in uno spazio vuoto, quasi siderale.

Il concetto di “milioni di morti” sembra non raggiungere la nostra memoria. L’esaltazione della guerra non si cura del passato, degli insegnamenti, della storia. Se ne fa un baffo, guarda solo al delirio presente. Con una consapevolezza di inevitabilità, prevedo di ascoltare, proprio nella Giornata della Memoria dello sterminio degli ebrei e di altre minoranze organizzato dai nazisti, le argomentazioni di chi vuole alzare l’asticella della guerra in nome dei morti del passato, come se il problema potesse essere la soluzione, come se le armi potessero creare vita piuttosto che morte. La retorica della guerra si nutre di ossimori che sembrano funzionare. Per questo c’è da aspettarsi la manipolazione della Giornata della Memoria proprio in funzione del mito della vittoria. Tanto i morti non possono ascoltarci.

In realtà, il vero dramma è la voluta rimozione di quelle esperienze storiche che hanno portato a un significativo successo delle alternative alla guerra. Le grandi figure della nonviolenza – non quella puramente spirituale, ma quella attiva e politica – in grado di trascinare i loro popoli verso processi di liberazione senza far ammazzare le loro stesse genti, sono sistematicamente dimenticate. Leader che, all’interno di grandi processi storici, hanno saputo coniugare l’anelito alla giustizia con la necessità della pace, consapevoli che la giustizia presa come motivazione assoluta porta sì ad aver ragione, ma una ragione di cui i morti non sanno cosa farsene. Soltanto una giustizia che tenga conto della necessità della vita, e quindi della pace, può ottenere dei risultati desiderabili. Diversamente, si tratta dell’elogio del kamikaze giapponese che, pur di aver ragione, si getta a morire col suo aereo sulla nave americana.

Proiettiamoci fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando Lev Tolstoj, elabora la prima teoria della resistenza evangelica ispirata alla nonviolenza. Teoria che già aveva trovato un suo principio nei movimenti evangelici dei Quacqueri e di altre confessioni della Riforma Protestante che, a loro volta, si ispiravano a un Vangelo radicale come quello promosso da san Francesco d’Assisi che andò fino in Terra Santa per tentare di convincere il Sultano a concedere il Santo Sepolcro ai cristiani.

Una teoria che diventa il punto di riferimento del Mahatma Gandhi che, con estrema efficacia, sperimenta nuove tecniche di nonviolenza nella lotta degli indiani contro l’oppressione dei boeri olandesi in Sudafrica ottenendo risultati indiscutibili. Quando nel 1915 torna in India viene acclamato non solo come un eroe, ma come un leader assoluto da venerare e da seguire. Le sue gesta in Sudafrica infondono nel cuore del popolo indiano la speranza di riscatto e di liberazione dal colonialismo inglese, particolarmente dispotico. Gli indiani si fidano di Gandhi, ritengono che abbia un carisma particolare. In questa identificazione profonda, che ha qualcosa di religioso, il Mahatma riesce a trascinare un continente fuori dall’oppressione senza una guerra, senza una rivoluzione sanguinosa, solo con le armi della disubbidienza civile e della resistenza nonviolenta, quella che lui definì Ahimsa (oggi tradotto con “nonviolenza”, per Gandhi è un atteggiamento etico derivante dalla fede nella Satya, ovvero verità). Un’operazione straordinaria che non ha sostanziali precedenti nella storia e che si realizza proprio alla fine di due terribili guerre mondiali. Altri leader in tutto il mondo raccolgono questa speranza. Martin Luther King, negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, porta i suoi compagni del Movimento per i diritti civili degli afroamericani a ottenere l’assoluta parità con i bianchi grazie a manifestazioni pacifiche e di una del tutto disarmata resistenza, come quella di Rosa Parks sul bus di Montgomery in Alabama e tante altre straordinarie esperienze.

Ricordiamo anche Nelson Mandela che, pur non dichiarando di ispirarsi direttamente al pensiero gandhiano, lo mise in atto. Nei suoi trent’anni di carcere non spinse mai i suoi seguaci alla violenza, ma alla resistenza non armata. E quando uscì di galera lo fece senza rancore, senza volontà di vendetta, prendendo in mano il Paese che gli era stato finalmente restituito. Si potrebbero raccontare tanti altri episodi se la memoria volesse proporli alle nuove generazioni. Invece, con un tuffo vertiginoso nel passato più buio e tetro, ci stiamo dimenticando anche del nostro articolo 11 della Costituzione che, proprio dopo il tragico spargimento di sangue di due guerre mondiali, recita: « L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Stiamo perdendo la memoria: se ci lasciamo invadere dal mito della guerra, del nemico, della vittoria, del mors tua vita mea, non c’è futuro, si torna indietro e si regredisce. Nel lontano ’91, papa Giovanni Paolo II ammoniva: « La guerra è un’avventura senza ritorno» una frase che non ha bisogno di commenti. Come si può pensare di usare le armi per raggiungere la pace? Le armi non aiutano la pace. Possono avere, come le bombe nucleari, un valore di deterrenza, ma nel momento in cui vengono usate servono solo per uccidere, massacrare, distruggere. Nient’altro che quello. Credere di aiutare l’Ucraina foraggiandola di armi spinge questo popolo in una spirale autolesionistica di morte e di tragedia senza fine. L’idea poi di coinvolgerci tutti in una Terza guerra mondiale, per giunta nucleare, è davvero sconvolgente. C i si chiede come l’Europa, Comunità che ha ricevuto il premio Nobel per la pace, possa consentire tutto questo. Quali cortocircuiti della memoria si sono creati? Quale amnesia porta a ributtarsi nel mito della guerra giusta? Il grande movimento per la pace europeo degli anni Ottanta, che risultò decisivo per la fine della guerra fredda, inventò lo slogan «Se vuoi la pace, prepara la pace». A chi pensa il contrario non resta che ribadire il mantra di don Lorenzo Milani: « L’obbedienza non è più una virtù». Non siamo più nel 1855 e il popolo italiano non ha intenzione di indossare l’elmetto per andare a morire in Crimea come i bersaglieri del generale La Marmora.


Pedagogista

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