mercoledì 2 novembre 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
L'iniziativa assunta dal giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi di presentare una sorta di controprogramma per il centrosinistra e, soprattutto, la reazione infastidita del segretario del Pd accompagnata da anatemi come quello di Sergio Cofferati danno quasi l’impressione di un partito “vietnamizzato”.Il punto non è la differenza di idee e di proposte, che è un carattere organico di un partito plurale o, come si suol dire, di un partito-contenitore. Che a Cofferati non piaccia la flexsecurity proposta da Pietro Ichino e appoggiata da Renzi, come non gli piaceva quella ideata da Marco Biagi, non è una novità, non sarebbe neppure un problema se l’ex segretario della Cgil non ne traesse la conclusione che «io e Renzi nello stesso partito è una contraddizione, è paradossale (…) è inevitabile che prima o poi ci si separi». In un partito in cui convivono diverse ispirazioni, sui problemi di merito ci si confronta e si cercano sintesi accettabili, se invece si dichiara preventivamente che le distanze sono incolmabili, si nega il carattere stesso del pluralismo interno, che può essere tollerato solo se chi dissente dal gruppo dirigente accetta una preventiva subalternità. L’argomento sostenuto dagli “ortodossi” è che la sottolineatura delle differenze indebolisce l’unità del partito in una fase particolarmente delicata della vita nazionale. Si potrebbe sostenere che in realtà è vero il contrario. L’unità forzosa è pagata con l’immobilismo: basta vedere come il Partito democratico continui a enunciare i lemmi programmatici di sei mesi fa, che hanno ormai solo un valore letterario, visto come si è involuta la situazione da allora. Alle richieste, magari troppo perentorie ma chiare, della Banca centrale europea e della commissione di Bruxelles, il Pd non risponde, appunto per salvaguardare l’unità formale, ma in questo modo non esercita la sua funzione e non si accolla la sua responsabilità di fulcro dell’alternativa.Ovviamente, il gruppo dirigente del partito ha tutto il diritto di reagire alle critiche venute dalla convention fiorentina alla Leopolda, ma per far fare un passo in avanti, dovrebbe rispondere nel merito alle proposte che lì sono state avanzate, aprendo un confronto e non un processo alle intenzioni. Dovrebbe far riflettere la sostanziale adesione alle tesi renziane di Sergio Chiamparino, l’ex sindaco torinese gia presidente apprezzato dell’Associazione dei Comuni, che non esprime una generica ricerca di rinnovamento generazionale, ma la consapevolezza di una persona esperta e capace di ascoltare gli umori popolari, che si rende conto della involuzione di un partito che rischia di non essere all’altezza del compito che lo attende. Il bivio che si apre davanti alla maggiore formazione di opposizione non riguarda solo le alleanze, ma la sua natura, la scelta tra il carattere inclusivo che consegue dal riconoscimento leale del pluralismo interno e il ritorno a vecchie pratiche centralistiche in cui invece della competizione valeva il principio della cooptazione o dell’esclusione. Non è un problema nuovo, e in un passato recente hanno dovuto trarne amare conseguenze – anche lasciando il Pd – diversi esponenti di area moderata e cattolica. In questa fase, torna a porsi in modo serio. E ogni passo indietro, come quello accennato dalla reazione di insofferenza verso Renzi, può rivelarsi rovinoso per l’unità vera del partito e quindi per la funzione nazionale che gli spetta esercitare.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: