mercoledì 19 febbraio 2014
​Anche gli esuli a favore della revoca. La Ue ha già aperto
Lucia Capuzzi
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Centosessantasei chilometri e 0,8 millimetri. Alla fine, le poliedriche relazioni tra l’Avana e Washington si riassumono in queste due, eterogenee, dimensioni. La distanza tra la spiagge della Florida e le coste cubane è solo apparentemente immutabile. Il Mar dei Caraibi, in questo tratto, s’allarga o si stringe, sospinto da minuscoli globi, il cui diametro non supera gli 0.8 millimetri. Tanto misura in media un granello di zucchero. Il prodotto cardine dell’economia isolana, come ben sapevano i guajiros (contadini). Che, già nell’Ottocento, ripetevano: «Senza zucchero non c’è Paese». Ne era consapevole anche il giovane Fidel Castro quando, all’indomani della Rivoluzione, l’allora capo della Casa Bianca Dwight Eisenhower ridusse la cuota. Ovvero la quantità fissa di zucchero cubano acquistata, annualmente, a prezzi preferenziali. Settecentomila tonnellate di merce sarebbero rimaste invendute se il Líder Máximo non si fosse affrettato ad accettare la mano tesa – non proprio disinteressatamente – da Mosca. In quel luglio del 1960 vennero gettate le premesse dell’embargo, destinato a congelare i rapporti tra i due Paesi ben oltre la fine della Guerra Fredda. Eppure – nell’apparente immobilità – lo Stretto della Florida comincia a rimpicciolirsi, sospinto di nuovo dai granelli di zucchero. Alfonso Fanjul junior era da poco arrivato a Palm Beach quando l’Amministrazione Usa varò el bloqueo. A Cuba aveva lasciato quattro piantagioni di canna, una dozzina di case, un porto. Proprietà che furono prontamente incamerate dal nascente regime socialista. “Alfy” e famiglia erano fuggiti in tempo per salvare gran parte del capitale. Con cui mise in piedi un impero ancora più grande e solido, la Domino Sugar. Tanto da essersi meritato il titolo di “re dello zucchero”. Per decenni, Fanjul è stato il prototipo dell’esule cubano a Miami: fervente anti-castrista, ha rimpinguato coi propri fondi le casse della Cuban American National Foundation e il Pac (Comité de Accion Pólitica), bastioni dell’opposizione più radicale al regime dell’Avana. Un’eventuale attenuazione dell’embargo, per Fanjul – come per la quasi totalità degli espatriati –, è sempre stata semplicemente fuori discussione. Posizione ben nota ai politici democratici – primi fra tutti Hillary e Bill Clinton – di cui ha generosamente finanziato le campagne. Ecco perché ha suscitato scalpore – molto oltre la Florida – il mutato atteggiamento di Alfy. Che, in una recente intervista, si è detto «disponibile a riportare l’antica bandiera familiare a Cuba, qualora si presentasse l’occasione». Non è stata una boutade. Bensì l’apice del “nuovo corso” cominciato nel 2012 con un primo viaggio di Fanjul nell’isola, insieme a una delegazione della Brookings Institution, think thank anti-embargo di Washington. “Alfy” è tornato all’Avana lo scorso febbraio e in quell’occasione ha incontrato il capo della diplomazia cubana e ispezionato varie piantagioni di canna sotto lo sguardo compiacente dei funzionari del ministero dell’Agricoltura. Che non si sia trattato di una visita di cortesia, è evidente. A scanso di equivoci, in ogni caso, Fanjul si è premunito di esporre il proprio cambiamento di vedute ai coniugi Clinton durante una riunione nella casa di un altro esule di spicco, l’imprenditore Paul Cejas. Il “caso Fanjul” – al di là dei contorni quasi romanzeschi della vicenda – non è che una cartina di tornasole. L’emblema del mutamento politico-generazionale in atto nell’esilio cubano. Tutt’altro che monolitico e ultra-radicale, come si ostina a vederlo Washington. C’è – ed è consistente – una componente pragmatica per cui il regime e la Rivoluzione non sono che scampoli di passato. Le immense potenzialità di business nella Cuba “ai tempi della transizione” sono il futuro. Il presente è ostaggio di un embargo che, in oltre mezzo secolo, non ha fatto crollare il regime. E, anzi, ora rischia di ritorcersi contro i suoi stessi promotori, bloccandone i margini di manovra imprenditoriale. L’avvicendamento al vertice dei due Castro e l’avvio da parte di Raúl di una serie di piccole aperture al mercato ha creato possibilità interessanti per le aziende. Lo sanno bene le altre nazioni. Non appena il governo ha concesso agli investitori stranieri di partecipare alla produzione dello zucchero cubano, le compagnie brasiliane si sono prontamente candidate. E sempre da Brasilia sono arrivati oltre 800 milioni per la costruzione del nuovo, maxi-porto del Mariel. Altri 300 giungeranno a breve per la creazione della Zedem o “zona franca”, in cui le aziende produrranno per l’esportazione. La Ue, la settimana scorsa, ha dato mandato alla Commissione di varare un nuovo accordo politico ed economico con l’isola, mettendo fine a 18 anni di gelo. Gli Usa seguiranno la stessa strada? Obama, nel primo mandato, ha fatto delle concessioni, liberalizzando i viaggi e le rimesse. Finora, però, il deterrente più potente è stato il timore dei politici di inimicarsi l’elettorato di origine cubana. In particolare, quello di uno Stato come la Florida, spesso ago della bilancia nelle competizioni. Eppure, si tratterebbe di una paura infondata. In base a una recentissima inchiesta dell’Atlantic Council, prestigioso think thant di politica internazionale, il 56 per cento dell’opinione pubblica Usa è favorevole a “normalizzare” le relazioni con l’Avana. Il dato più sorprendente si ottiene, però, scorporando i risultati a livello statale. In Florida, roccaforte dell’anticastrismo militante, la quota di contrari all’embargo è ancora maggiore: 63 per cento. Non solo. A Miami e dintorni otto residenti su dieci vorrebbero un maggior dialogo con l’Avana su questioni di interesse comune, dal narcotraffico alla lotta anti-terrorismo. La stessa opposizione interna all’isola è schierata in gran parte – con l’eccezione delle Damas de Blanco – contro il blocco. Dalla blogger dissidente Yoani Sánchez al giornalista Dagoberto Valdés fino alla rivista dell’arcidiocesi dell’Avana Espacio Laical– uno dei pochi strumenti di dibattito aperto nell’isola – sono tante le voci critiche verso l’embargo. Condannato, tra l’altro, dalla stessa Assemblea dell’Onu, dalle principali organizzazioni di Stati latinoamericani e dalla Chiesa. El bloqueo è, però, un mito potente. Per il castrismo, che continua a “scaricargli” tutti i propri fallimenti economici. E per la stessa Washington, che ne ha fatto il “contro-mito” della Rivoluzione. Poco importa che quel vicino “ribelle” e pericoloso non esista più. Autoritarismo, sistematica repressione della libertà, corruzione, nepotismo endemico, crisi economica permanente hanno da tempo eroso ogni possibile fascino del modello cubano sul resto del Continente in modo ben più efficace dell’embargo.

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