venerdì 2 dicembre 2011
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Lo stallo che si era determinato nei rapporti di forza politici, con una maggioranza che aveva perso il controllo di una delle Camere e con le opposizioni che non erano in grado di fornire un’alternativa numerica e politica, ha indotto il capo dello Stato a proporre, anzi a predisporre, una soluzione di tregua, nel timore che il ricorso immediato alle urne avrebbe gravemente danneggiato la situazione del Paese al centro della nuova fase dell’attacco internazionale contro la moneta unica europea. È stata così temporaneamente sospesa la logica dell’alternanza, non la politica. Alle rappresentanze politiche spetta, infatti, l’onere di approvare o di rifiutare le proposte dell’esecutivo in campo economico, e questo le mette in una situazione difficile, sia per il carattere oggettivamente pesante della manovra necessaria, sia per la tensione che si è creata più o meno esplicitamente tra le maggiori formazioni e i loro tradizionali alleati.La maggioranza che ha votato la fiducia e che con ogni probabilità approverà le misure del governo di Mario Monti, si dice, non è una maggioranza politica, il che è tecnicamente vero. Però questa situazione di tregua obbligata può essere interpretata in due modi diversi, quasi opposti. Può condurre a una lunga ed estenuante precampagna elettorale, in cui partiti che votano le stesse leggi si accusano a vicenda di responsabilità retroattive. Oppure - come questo giornale ha auspicato più volte - può diventare l’occasione perché essi, liberati per cause di forza maggiore dalle collocazioni di governo e di opposizione, cerchino un’intesa sulle questioni istituzionali irrisolte. In realtà su molte questioni le posizioni non sono affatto distanti: la forma dello Stato, basata su un federalismo solidale e chiaro, in cui si sappia finalmente che cosa compete ai diversi livelli di governo, è un tema condiviso e, paradossalmente, potrebbe essere affrontato e risolto più agevolmente proprio per l’etraneità dalla maggioranza di quella Lega, che dal federalismo pretendeva irrealistici effetti miracolosi. Da lì si può passare al superamento del bicameralismo perfetto, con l’istituzione di una Camera delle Regioni, che era nel programma di ambedue i maggiori partiti, come il superamento delle amministrazioni provinciali e, anche per dare un segnale comprensibile di riduzione dei costi della politica, la sensibile riduzione del numero dei membri delle assemblee elettive e il 'disboscamento' degli enti a nomina politica a tutti i livelli. Con un po’ di ottimismo, si può persino pensare a qualche intervento di riequilibrio dei poteri tra le istituzioni elettive e l’ordine giudiziario, volti a superare le sovrapposizioni e le contrapposizioni che hanno segnato una stagione ormai - tutti lo speriamo - passata in archivio. Naturalmente alla conclusione delle riforme istituzionali si porrebbe, ma a quel punto assai svelenita, la questione del meccanismo elettorale, che ai maggiori partiti conviene mantenere nell’ambito di un sistema bipolare, liberato dalle forzature e dai limiti contenuti nel meccanismo attuale, che avrebbe dovuto assicurare la disciplina di parlamentari 'nominati' e ha prodotto invece colossali dissociazioni proprio dai due gruppi maggiori. Si può pensare che questo sia un libro dei sogni, e probabilmente in parte è così. Tuttavia è penoso pensare a una fase in cui i partiti, cui spetta di indicare le vie per il futuro del Paese, restino rinserrati nella rivendicazione dei meriti propri e delle nefandezze altrui, sempre con lo sguardo rivolto a un passato di cui in realtà avrebbero poco di cui essere orgogliosi. Questa fase speciale offre alla politica uno spazio per vivere, recuperare credibilità e ruolo e forse per 'ristrutturarsi' seriamente, a patto che torni positivamente a essere, come si dice, l’arte del possibile. E di possibilità, se si guarda al futuro con spirito aperto, ce ne sono tante quante sono le esigenze di rinnovamento del sistema istituzionale e politico dell’Italia.
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