mercoledì 1 giugno 2011
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In questa campagna elettorale appena conclusa sono volate parole grosse. Non intendo quelle spesso grevi o ingiuriose, o quelle teatrali che finiscono quasi sempre con l’addobbare per così dire le campagne politiche nel nostro Paese (e non solo nel nostro). Ma quelle che inevitabilmente mischiano il loro splendore al sudore e spesso al fango delle diatribe elettorali: "libertà" o "felicità" o "giustizia". Parole chiave dell’esperienza umana usate inevitabilmente nell’agone politico, perché la politica non avrebbe senso senza fare riferimento a quello che tali parole indicano. Ma parole che oggi, dopo che sono state usate, è come se restassero in aria, sui vincitori e sui vinti, non solo come promesse da mantenere ma come parole da comprendere di nuovo. Perché si è trattata di una contesa politica. Ma è stata soprattutto una contesa culturale intorno al senso di alcune parole. Parole chiave, parole che se usate come slogan e come retorica finiscono con il non saper di nulla, ma che se sono usate con un briciolo di coscienza (anche solo un briciolo) sono di fuoco, bruciano nel sangue e nella mente. Sono le parole più umane, necessarie alla nostra vita. Le parole respiro. Le parole pane.E dunque nel nostro Paese queste parole agitate nelle scorse settimane chiedono di nuovo a tutti di essere riconosciute. Perché non è detto che chi parla di libertà sappia che cosa dice. E non è detto che chi parla di giustizia sappia che cosa sta dicendo. E chi parla di felicità forse non sa che cosa sta azzardando. Soprattutto non è detto che sia la politica l’ambito in cui tali parole si realizzano pienamente o trovano i motivi adeguati per essere perseguite come ideale. La politica non è tutto, anche se si mette a parlar di tutto. Vogliamo dare credito che coloro – vincitori e vinti – che hanno agitato certe parole lo abbiano fatto senza la suprema incoscienza di volerle sciupare, di usarle per pura retorica. Che le abbiano usate con onore.Dunque ora si prenda atto che in Italia non c’è solo un grande scontro politico in corso. Si veda che non c’è solo un grande scontro di potere. Ma è in atto una vera grande questione culturale. Una vera emergenza che riguarda certe parole e il loro reale significato. C’è una contesa che non riguarda solo questa o quella poltrona, ma il senso da riconoscere a certe parole. Presumere di combattere una battaglia politica come se non esistesse una battaglia culturale è forse l’errore peggiore di chi esce sconfitto da questa tornata. Molte cose costruiscono una sconfitta. Ma certo una è l’avere opposto slogan vecchi al senso di certe parole (come giustizia, politica, condivisione) che la cultura post-sessantottina ha visto con entusiasmo incarnarsi in certe figure, persuadendone la maggioranza.Il consenso o il dissenso in politica nasce soprattutto dal riconoscimento di certe parole chiave. E dalla verifica di quanto chi le usa poi le incarna oppure ne fa un uso retorico. Da anni in Italia la politica, come in tutte le grandi democrazie (è bene ricordarlo), si gioca intorno al senso e alla verifica di alcune parole che non nascono nell’azione politica, ma nel cuore della vita. Parole strattonate, stracciate, di cui si è abusato o che sono state impiegate come clava contro gli avversari.Eppure, anche se sono apparentemente deboli, la cosa più debole che abbiamo addosso, le parole hanno una speciale forza. E per quanto vilipese o abusate le grandi parole conservano il loro fulgore. Non si fanno totalmente possedere dal gioco politico. Resistono nella loro radiante forza. E chiedono di essere imparate di nuovo.
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