lunedì 23 giugno 2014
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La parola profitto (bèçá) fa la sua comparsa nella Bibbia per la vendita di un fratello: «Quale profitto se uccidiamo nostro fratello?» (Genesi 37,26). Così, dopo averlo gettato nella cisterna, i fratelli diedero retta a Giuda, e «per venti sicli di argento vendettero Giuseppe» (37, 28) a dei mercanti di passaggio. Era il prezzo di uno schiavo o di un paio di sandali, venti volte meno del prezzo che Abramo pagò agli Ittiti per la tomba per Sara. Così, Giuseppe, il fratello minore, fu venduto come uno schiavo agli Ismaeliti, i discendenti del figlio di Abramo e Agar, il ragazzo rifiutato da Sara e scacciato anch’egli nel deserto. Il denaro e il profitto ci si presentano strettamente legati alla morte. Entrano in scena come un mezzo per evitarla, ma in realtà continuano a starle molto vicino. Le grandi civiltà sapevano molto bene che il territorio del profitto confina da un lato con quello dell’amore e della vita, ma dall’altro con quello della morte e del peccato; e che i paletti di confine sono mobili e gli attraversamenti nelle due direzioni molto facili e frequenti. La nostra civiltà, invece, è la prima che nel suo insieme ha dimenticato l’esistenza del confine sinistro della terra del profitto; e così ha dimenticato che «il guadagno del giusto serve per la vita, il salario dell’empio serve per il peccato» (Proverbi, 10,16). Ci sono - ieri e oggi - mercanti che comprano e vendono soltanto «adragante, balsamo e ladano» (37,25); ma ce ne sono altri, spesso mescolati sulle stesse piazze, che insieme alle merci comprano e vendono "fratelli", per venti sicli o meno. Dopo che la carovana di mercanti di merci e di fanciulli ripartì in direzione dell’Egitto, i fratelli «presero la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono quella lunga tunica a loro padre… Egli la riconobbe e disse: "È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato! Giuseppe è stato sbranato!"» (37,31-33). Siamo dentro uno dei passaggi più intensi della Genesi: «Allora Giacobbe si stracciò le vesti, si mise un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto per suo figlio per molti giorni. … E disse: "Io voglio scendere in lutto nel regno dei morti [shèol] da mio figlio"» (37,31-35). Versetti di una bellezza e una umanità immensi, che rendono eterno e sacro questo speciale tipo di dolore di padre, per il quale - a differenza dell’orfanezza e della vedovanza - non esiste una parola specifica, forse perché indicibile. Il paradiso deve esistere, fosse solo per rendere giustizia a questi dolori senza nome, per far tornare immacolate le vesti lunghe e variopinte dei figli. Poi Giuda «si separò dai suoi fratelli» (38,1), e - forse per allontanarsi da quella tunica e da quel sangue - si spinse nella terra dei Cananei, dove diventa protagonista, con sua nuora Tamar, di una delle storie più belle della Genesi. Tamar, cananea, rimane vedova dopo aver sposato Er, il primogenito di Giuda. Per la cosiddetta legge del levirato, Giuda chiede al suo secondo figlio Onàn di dare una discendenza a Tamar. Ma anche Onàn, dopo essersi rifiutato di adempiere al suo dovere verso Tamar, muore (38,6-9). A questo punto in Giuda si insinua il pensiero che possa essere Tamar la causa della morte dei suoi due figli (38,11) - era comune in molte culture antiche, e ancora oggi in alcune regioni dell’India o dell’Africa, credere che le vedove portassero sfortuna e maledizioni, e quindi venivano discriminate e maltrattate. E le dice: «Vedova ritorna alla casa di tuo padre, fino a che Shelàr, mio figlio, sarà diventato grande» (38,11). Passa il tempo, Shelàr diventa grande, ma Giuda non mantiene la sua parola e non rispetta la legge del levirato, e Tamar continua a restare sola e senza figli. A questo punto arriva il colpo di scena. Tamar viene a sapere che Giuda è di passaggio dalle sue parti, lontano dalla sua tribù. Si toglie l’abito vedovile (38,14), si copre con il velo per non essere riconosciuta dal suocero, e si mette in sua attesa in un crocicchio della strada. Giuda la vide, «la reputò una prostituta» (38,15), e come prezzo promette a Tamar l’invio di un capretto. Ma la nuora, per concedersi a Giuda, vuole un pegno: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano» (38,18), la "carta di identità" dei signori di quei luoghi. Tamar resta incinta. E quando Giuda tre mesi dopo viene a sapere che sua nuora aspetta un bambino (che poi in realtà saranno due gemelli: Pères e Zérah: 38,29-30), la condanna a morte. Mentre la conducono verso il rogo, Tamar porta a termine il suo piano: «Dell’uomo a cui appartengono queste cose [il sigillo, il cordone e il bastone] io sono incinta» (38,25). «Giuda li riconobbe. Allora disse: "Ella è nel giusto più di me, in quanto io non l’ho data a Shelàh, il mio figlio"» (38,26). Con questo ultimo atto di responsabilità Giuda riscatta anche se stesso: avrebbe potuto esercitare il suo potere di uomo e di capo clan per smentire Tamar, una donna indifesa. Ma non lo fece, e, almeno in questo atto, fu uomo giusto.

 

Così termina la storia di Tamar. Dalla sua conclusione capiamo bene da quale parte sta la Genesi: dalla parte di Tamar, che ci viene presentata come una figura positiva e giusta («Ella è nel giusto più di me»), con tratti simili alle grandi figure femminili della Bibbia (Giuditta, Rut). E se sospendiamo la lettura moralista di questi episodi (e lo dobbiamo fare sempre, se vogliamo sperare di possedere un po’ di "intelligenza delle scritture"), nella storia di Tamar scopriamo molti messaggi di vita. Innanzitutto la Genesi, biasimando Giuda e lodando Tamar, ci ricorda che esistono una prudenza sbagliata e trasgressioni salvifiche. Per paura che potesse morire anche il terzo figlio («che non muoia anche lui come i suoi fratelli»: 38,11), Giuda non serve la vita e nega la discendenza a sua nuora e alla sua famiglia. Questa prudenza non rischiosa è spesso nemica della vita e del futuro, non è una virtù ma vizio e peccato. Nella storia di Giuda e Tamar ritorna allora forte un controcanto che accompagna l’intero concerto biblico: la predilezione e il riscatto degli ultimi e dei minimi. Solo mettendo assieme la "voce" dei patriarchi, dei re e della Legge con quella degli umili innalzati, la Bibbia può risuonare in tutta la sua bellezza e salvezza. La lettura più proficua e vera della Parola di Dio è allora quella che ci fa capovolgere gli ordini e le gerarchie del nostro tempo umano, che esalta gli umili e umilia i potenti, che ci scuote e scardina anche nostre radicate convinzioni etiche su che cosa sia moralità, peccato, colpa, innocenza. Una Bibbia senza la presenza dell’umanità ferita e persino di quella peccatrice, sarebbe un libro che non arrecherebbe alcun giovamento agli uomini e alle donne reali.
 
Ma in questo episodio della Genesi possiamo rintracciarvi, nascosto ma non invisibile, anche un ulteriore messaggio, rivolto soprattutto ai maschi e ai potenti: le donne che cercate ai "crocicchi delle strade" e che, come Giuda, "scambiate per prostitute", possono essere persone della vostra casa. E lo sono realmente. Voi non le riconoscete, le considerate estranee e senza volto, ma Elohim vede oltre il velo, e arriverà il giorno di giustizia in cui dovrete render conto dei "sigilli" che avete lasciato in pegno presso di loro. Dobbiamo ringraziare l’autore di questi racconti, e chi ce li ha custoditi a caro prezzo nei millenni, per aver avuto il coraggio di raccontarci tutta l’umanità nuda e ferita, senza censure e senza pudori. E se tutta l’umanità è donata, allora ogni essere umano può trovare in questi testi una vita di riscatto e di salvezza, ieri, oggi e sempre. Solo se entriamo in questa logica "ribaltata" non restiamo stupiti quando leggiamo nella genealogia di Gesù di Nazareth: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Pères e Zèrah da Tamar» (Matteo 1,2). Sì, tra Abramo e Gesù c’è Tamar, e c’è Giuda. In quel crocicchio presso la sorgente, Tamar allora non incontrò soltanto suo suocero; non lo sapeva, ma il vero appuntamento lungo quella strada era un altro, quello che l’ha incastonata per sempre, come perla rara, nella grande storia della salvezza.

 

 

 

Un fratello non si vende ai mercanti per venti monete, non si invia a un padre la tunica lunga e variopinta di un figlio intinta nel sangue di un capretto, una nuora-vedova non va umiliata e abbandonata. Ma finché qualcuno continuerà a compiere questi delitti e a generare vittime, nel mondo ci sarà almeno un "luogo" (la Bibbia) in cui riconoscersi, sentirsi accompagnati, amati, consolati, presi per mano, rialzati, anche nelle situazioni più drammatiche e buie della nostra esistenza e di quella degli altri. E poi trovare la forza per ricominciare a camminare, per non morire e per non far morire, per sperare veramente in una terra promessa, in una resurrezione, nel paradiso di Abele, Ismaele, Agar, Dinah, Giuseppe, Tamar. «Giuseppe era stato portato in Egitto, e Potifàr … lo acquistò da quegli Ismaeliti» (39,1).                                                                                     

 

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