sabato 26 aprile 2014
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L'11 aprile 1963, giorno di pubblicazione della Pacem in terris, l’ultima e forse più famosa enciclica di Giovanni XXIII, è una di quelle date che non è facile trovare sui libri di storia. Più famoso e presente è invece il 9 novembre 1989, cioè l’inizio dello smantellamento del Muro di Berlino. Smantellamento al quale – per ormai unanime riconoscimento – Giovanni Paolo II ha dato un contributo decisivo. Eppure c’è un filo neanche tanto invisibile che lega i due eventi, l’uno in un certo senso conseguenza dell’altro. Ed è lo stesso filo che cuce insieme un fondamentale aspetto della santità di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyla: il loro profondo senso della storia, unito all’intima convinzione che a governare le umane vicende non sia il rigido determinismo di cause ed effetti esclusivamente immanenti, ma la Provvidenza, al cui servizio la libertà di tutti gli uomini di buona volontà può scegliere o meno di porsi.Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ognuno nel proprio tempo, sono stati pontefici che hanno aperto le porte a grandi cambiamenti storici, sia nella Chiesa (l’intuizione e l’apertura del Concilio per il primo, la sua applicazione puntuale e fedele per il secondo) sia nella società e nei rapporti tra i popoli. Possiamo anzi affermare che Roncalli, proprio con la Pacem in terris (a sua volta figlia delle grandi aperture al mondo operate dal Concilio) ha piantato un seme, divenuto poi un albero grazie all’opera di Wojtyla e alla sua spallata definitiva a un mondo diviso in due rigidi blocchi. Ma tutti i cambiamenti a loro riconducibili sono il frutto di un profondo rapporto con Dio, che è diventato ispirazione del loro rapporto con gli uomini. In sostanza quelle svolte impresse alla storia del nostro tempo sono il frutto della loro santità. E dunque la canonizzazione dei due Papi nello stesso giorno appare quanto mai opportuna anche sotto questo profilo. Si deve infatti anche e soprattutto alla loro azione se la seconda metà del cosiddetto «secolo breve» ha largamente posto rimedio alle immani tragedie ereditate dalla prima metà. Si pensi ad esempio all’effetto dirompente che in quel 1963 segnato dalla crisi di Cuba ebbero le parole della Pacem in terris, quel profetizzare un mondo senza confini e senza blocchi, quell’invocare dialogo e negoziato al posto del confronto muscolare delle armi (nucleari, per di più). Soprattutto quel riaffermare la dignità inviolabile dell’uomo e la necessità di improntare i rapporti tra le persone, come quelli tra gli Stati, al principio di una fraternità necessariamente universale. Giovanni XXIII, in sostanza, ha posto le premesse antropologiche per scardinare la cupa logica della guerra fredda tra superpotenze. Al punto che persino un giornale laico come il Washington Post definì l’enciclica «non solo l’espressione di un anziano prete, né quella di un’antica Chiesa, ma la voce della coscienza del mondo».Giovanni Paolo II ha raccolto e amplificato l’eco di questa coscienza, portando a compimento la "rivoluzione" avviata dal suo predecessore. E lo ha fatto in virtù della medesima visione della verità sull’uomo. Lui che aveva vissuto sulla sua stessa pelle gli opposti messianismi ideologici, ne conosceva in toto gli errori antropologici, denunciati prima e dopo l’elezione a Vescovo di Roma e da ultimo "codificati" nell’enciclica Centesimus Annus. Così la sua testimonianza ha contribuito al crollo del Muro di Berlino e la storia ha preso un’altra direzione. La santità è capace anche di questi laici "miracoli". E l’opera dei due Papi sta lì a ricordarcelo, così come dimostra a tutti – specie in un tempo di grandi incertezze come il nostro – che lasciare ai posteri un mondo migliore di quello che si è ricevuto, è possibile. E che la fede in Cristo, integralmente vissuta, è davvero il motore più potente del cambiamento.
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