martedì 15 giugno 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Nella nitidezza tagliente del Vangelo, è una condizione assoluta di efficacia: se il chicco di grano non muore» «rimane solo», il frutto lo dà «se invece muore». È così in natura, l’evidenza nota a tutti che occorre un sacrificio perché ci sia pane. Un linguaggio aspro, a sentirlo echeggiare com’è accaduto ieri ieri sotto le volte del Duomo di Milano davanti al feretro di monsignor Luigi Padovese, il vescovo dell’Anatolia brutalmente ucciso in circostanze non ancora chiarite. Al cardinale Tettamanzi, amico di Padovese e pastore della Chiesa ambrosiana di cui il vescovo cappuccino era figlio, l’immagine evangelica è sembrata la misura esatta di una morte tragica e impensabile, destinata – nelle parole della sua bella omelia – a dare speranza e non a negarla. È la logica del chicco di grano, paradossale ma necessaria, a documentare che occorre spingere lo sguardo oltre il dolore per un sacrificio che appare insensato, fine a se stesso. Come si possa entrare in questo orizzonte interamente cristiano l’hanno afferrato le migliaia di milanesi che ieri hanno stipato la cattedrale – un lunedì mattina, nella metropoli febbrile –, insieme a decine di loro parroci, come spinti dall’intuizione che in quel rito non solo avrebbero reso omaggio a un pastore pronto a dare la vita per il suo popolo ma gli sarebbe divenuto evidente un segreto della loro stessa fede. Una meditazione sulla chiamata cristiana e le sue esigenze, racchiusa nel seme che dà vita ad altri semplicemente perché è pronto a lasciare sé stesso nella terra e generare così una realtà tutta nuova. La dedizione al Vangelo – quella del missionario come del cristiano qualsiasi – è tutta segnata dalla prontezza a farsi chicco pieno di vita, minuscolo ma decisivo: nessun’ansia di crociata (com’è pure capitato di leggere nei giorni scorsi), niente caricature remissive di una fede invece sempre e ovunque esigente, a Milano e in Turchia. La serietà della vocazione cristiana sta tutta nelle parole che Tettamanzi a un certo punto ha scandito, a pochi metri dalle spoglie di un vescovo ucciso per motivi oscuri: «Vogliamo accogliere e affrontare – ha detto, facendosi carico delle lacrime e degli impegni di tutti – la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre e dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica: amando Cristo e ogni uomo "sino alla fine"». Finché ci saranno in giro per le nostre città e per il mondo cristiani capaci di questa mite fermezza, di questa fibra umile e tenace, la speranza può ancora essere l’esito inaudito persino di un sacrificio efferato, che non domanda vendetta, o rivincita, ma verità e coerenza. Da Iskenderun – a due passi da Tarso – è risuonata sotto le volte del duomo milanese la voce di una chiamata che riguarda tutti, resa una volta ancora credibile e vera dal sangue, com’è sempre stato nel diario di famiglia della Chiesa. Ecco perché – sono ancora parole del cardinale Tettamanzi – occorre sentirsi legati alla Chiesa di Turchia e di tutto il Medio Oriente, la Chiesa delle origini e delle radici, oggi «in modo ancora più profondo e particolare». La testimonianza coraggiosa e lieta di un drappello di cristiani che dall’Anatolia a Gerusalemme presidia le pietre della memoria cristiana, e che sembra doverci ricordare quei Dodici della prima ora, parla in realtà a ciascuno di noi, cristiani cresciuti sulle loro spalle, pronti a lesinare su quasi ogni capitolo della fede sino a inciampare su un chicco di grano che, morendo, proprio non ci dà tregua. Monsignor Padovese aveva messo in conto di poter essere chiamato a dare la vita: ma non è forse vero che questo vale per ogni battezzato, nei modi in cui oggi il relativismo ci tende i suoi suadenti tranelli? Il frutto verrà, questo è certo: ma solo se quel seme, preparato per schiudersi, troverà terreno fertile nel nostro vivere.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: