domenica 22 giugno 2025
Martedì a Roma il convegno dedicato all'istituzione del Ministero, organizzato da Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica e Acli con 15 enti della società civile
Una bandiera per la pace

Una bandiera per la pace - Ansa Archivio

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Martedì a Roma avrà luogo il convegno – primo del genere – dedicato all’istituzione nel nostro paese del Ministero della Pace. Organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, dall’Azione Cattolica e dalle Acli, in collaborazione con quindici enti nazionali della società civile in rappresentanza di centinaia di migliaia di cittadini, il fine dichiarato è quello di articolare un progetto volto a dare vita a un’Istituzione pubblica che, in seguito alla soppressione nell’immediato dopoguerra del Ministero della Guerra, avrebbe dovuto vedere la luce.

«Gli uomini hanno sempre organizzato la guerra; è ora di organizzare la pace» – era solito ripetere don Oreste Benzi (di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita) già negli anni ’70 del secolo scorso (Chi scrive ne dà personale testimonianza). Si presti attenzione all’espressione usata: «È ora di organizzare la pace», non semplicemente invocarla o urlarla. Non vi è bisogno di essere esperti di scienza dell’organizzazione per comprenderne il significato proprio. L’art. 52 della Carta Costituzionale recita: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», ma questo non implica affatto che la difesa debba essere esercitata con le armi.

Ben altri e di gran lunga più efficaci sono gli strumenti che – come dirò – si possono usare per la bisogna. Ebbene, il Ministero per la Pace svetta tra questi. In una recente dichiarazione, l’arcivescovo emerito di Seattle Raymond Hunthausen ha affermato: «Le armi nucleari proteggono i privilegi e lo sfruttamento. Rinunciare a esse significherebbe abbandonare il nostro [dell’Occidente] potere economico sugli altri popoli. Pace e giustizia procedono assieme. Sulla strada che seguiamo attualmente, la nostra politica economica verso altri paesi ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo». Non penso vi sia bisogno di commento alcuno, tanto chiare e coraggiose sono queste parole che ci obbligano a riflettere su una cruda novità di questa epoca: la privatizzazione della guerra.

Quali i compiti specifici che un Ministero della Pace – che non escluderebbe, si badi, il Ministero della Difesa – sarebbe in grado di assolvere? Ne indico solamente tre, per ragioni di spazio. Primo, portare al centro dell’indirizzo politico-governativo e del dibattito parlamentare la questione della pace in modo non episodico come oggi avviene, ma in modo organico e permanente. Non bastano, infatti, le politiche per la pace; sono necessarie soprattutto le politiche di pace. Inoltre, un Ministero della Pace – pur senza portafoglio – potrebbe coordinare le deleghe e i progetti oggi frazionati tra tanti ministeri in aree quali la cooperazione internazionale, il dialogo multilaterale, la promozione dei diritti umani. Solo così si potrà essere efficaci quando ci si siede ai tanti tavoli internazionali. Fare il bene è bene, ma volere fare il bene è meglio – quanto a dire che il bene va fatto bene!

Un secondo compito è quello di diffondere ad ampie mani la cultura della pace e di preparare progetti specifici di educazione alla pace. Per quale ragione in Italia si continua a insegnare e far studiare ai frequentanti di vari ordini di scuola testi che parlano in prevalenza di guerre e pochissimo di pace? Oggi sappiamo, perché ce lo confermano le neuroscienze, che un tale martellamento modifica in profondità le mappe cognitive dei giovani, riducendone le disposizioni ai comportamenti virtuosi. Vi sono nel nostro paese 40.321 scuole. Solamente in poco più di 700 si realizzano attività mirate a educare alla pace, grazie alla saggezza e alla generosità di insegnanti che hanno finalmente compreso che compito della scuola è, in primis, educare e in secundis istruire. Discorso analogo vale per l’Università.

Nel 2020 è nata, per iniziativa della Conferenza dei Rettori, la Rete delle Università italiane per la Pace, cui aderiscono 73 Università. A tutt’oggi, un solo dottorato di ricerca in Peace Studies è stato attivato! (Osservo, con piacere, che tra i soggetti organizzatori dell’evento del prossimo 24 giugno c’è l’Università di Padova).

Un ulteriore compito di straordinaria rilevanza per un Ministero della Pace è quello di fungere da supporto alla mediazione di pace e alla “diplomazia ibrida”, cioè all’azione sinergica tra istituzioni pubbliche e organizzazioni della società civile. È questa carenza di supporto a non consentire al nostro paese di valorizzare tutto il suo potenziale – che è tanto – per il peacebuilding. Si consideri che l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo non ha un’unità specificamente dedicata al peacebuilding, il che spiega, in parte, perché ancora subottimale sia il numero degli enti di Terzo Settore che si occupano di mediazione di pace.

La pace non è un obiettivo irraggiungibile, perché la guerra non è un dato di natura – come ancora una nutrita schiera di intellettuali ritiene vero, pur non avendo il coraggio di dichiararlo pubblicamente. Piuttosto, la guerra è un frutto marcio di tutti coloro che la vogliono, per specularci sopra. Nel suo celebre saggio del 2000, Norberto Bobbio ha scritto che «qualche volta è accaduto che un granello di sabbia, sollevato dal vento, abbia fermato una macchina». È proprio così: un Ministero della Pace sarebbe, nelle presenti condizioni, un tale granello che il vento dell’iniziativa del 24 giugno andrà a sollevare molto in alto.

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