Omotransfobia, il cuore dei problemi e la chiarezza di cui c'è vero bisogno
mercoledì 24 giugno 2020

Gentile direttore,

innanzitutto desidero complimentarmi con lei e con il giornale che dirige per l’equilibrio e per l’aver dato conto delle diverse posizioni in merito alla legge contro l’omotransfobia, in discussione in Parlamento. Trovo molto incoraggiante la scelta di evitare 'battaglie' pregiudiziali di posizionamento culturale, per concentrarsi nel merito di un problema che, a mio modo di vedere, c’è ed è anche molto rilevante per la qualità della nostra democrazia.

Alcune settimane fa Ilga Europe, una delle maggiori associazioni internazionali che curano e monitorano i diritti delle persone lgbt in Europa, ha pubblicato come ogni anno il suo Rapporto sullo stato dei diritti e dei trend di sviluppo nei 49 Paesi del continente europeo e dell’Asia centrale. L’Italia è risultata al 35° posto, molto poco distante da Paesi che, per usare un eufemismo, trattano i diritti umani alla stregua di un male necessario, da limitare il più possibile. È di questi giorni anche il Rapporto dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali (Fra), che presenta i risultati di un’indagine online condotta tra il maggio e il luglio 2019 nei 27 Stati membri della Ue, nel Regno Unito, in Macedonia del Nord e in Serbia. Secondo il Rapporto, la situazione in Italia denota un contesto improntato sulla paura di dimostrare in pubblico la propria affettività: il 62% delle persone intervistate evita persino il prendere per mano la persona amata e il 30% dichiara di evitare di frequentare alcuni luoghi specifici per paura di subire aggressioni. Solo il 39% del campione italiano esprime liberamente la propria identità Lgbt, a fronte di una media europea del 47%. Il 23% degli intervistati dichiara di aver subito discriminazioni sul posto di lavoro e il 32% ha dichiarato di aver subito almeno un episodio di molestia nell’anno precedente all’indagine e l’8% un episodio di aggressione fisica nei 5 anni precedenti. Solo il 16% del campione ha dichiarato di aver denunciato questi episodi alle forze dell’ordine, mentre l’8% (contro una media europea del 33%) degli intervistati ha espresso fiducia nel reale impegno delle istituzioni pubbliche.

Questi dati non possono che allarmare coloro i quali, come l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), si occupano del rispetto dei diritti umani nel nostro Paese. E a nulla valgono i numeri bassi riportati nei media sui casi di violenza omotransfobica, dal momento che le vittime non si fidano delle istituzioni preposte al rispetto dei propri diritti. Il cosiddetto under-reporting (la tendenza delle vittime di reati d’odio a non denunciare i crimini subiti) è un fenomeno denunciato da anni dall’Oscad, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, della Polizia e dei Carabinieri. Ciò vale sia per la violenza verbale e fisica, sia per il linguaggio d’odio sui social media. Pertanto, spero che nel dibattito pubblico sparisca l’argomentazione che dipinge l’omotransfobia alla stregua di un fenomeno marginale. Piuttosto rifletterei sullo stato di salute della nostra democrazia, di fronte a un numero molto alto di cittadini che vivono la paura di poter esprimere la propria personalità e la propria affettività liberamente.

Il relatore del testo unificato, il deputato Alessandro Zan, già oggetto di minacce di morte, ha dichiarato ripetutamente che la legge non prevedrà limitazioni della libertà di espressione, non ci sarà alcun reato d’opinione, bensì verrà perseguito l’incitamento all’odio e alla violenza, ben altra cosa rispetto a un potenziale bavaglio verso chi parla di famiglia 'tradizionale' e di 'padre' e 'madre'. Queste sono questioni importanti che prima poi andranno affrontate, ma non in chiave propagandistica e ideologica, piuttosto tenendo in considerazione i diritti dei bambini e degli adolescenti, visto che credo tutti siano d’accordo sul fatto che non possa esistere nel nostro Paese un’infanzia di serie A e una di serie B.

Domani, 25 giugno, sarà presentato alla Camera dei deputati il testo unico contro l’omotransfobia, che arriverà in aula a luglio per la discussione. A quel punto il contenuto sarà inequivocabile e contribuirà a un dibattito più serio e circostanziato. Sono certo che 'Avvenire' contribuirà a una analisi oggettiva del testo e alla promozione di una cultura democratica scevra da partigianerie e pregiudizi. Cordialmente.

Triantafillos Loukarelis, Direttore generale Unar


Gentile direttore,

stiamo seguendo con interesse il dibattito intorno alle proposte di legge sull’omotransfobia, nell’attesa ormai agli sgoccioli che prenda forma, sotto la regìa del deputato Alessandro Zan, un testo base unificato. 'Avvenire' ha ospitato molte analisi, pareri e personali testimonianze, sempre esaustivi e attenti alle diverse sensibilità. Una scelta pluralistica che apprezziamo. Tuttavia, da questo dibattito, rischia di rimanere sostanzialmente fuori la voce delle donne, anch’esse direttamente coinvolte e meritevoli quindi di attenzione.

Una legge che tuteli da aggressioni e violenze le persone omosessuali e transessuali non può che trovarci concordi. Ci lascia però perplesse la definizione 'identità di genere' al posto di 'identità sessuale', perché finirebbe per negare la specificità femminile. Nel Regno Unito, in Canada, in alcuni Stati Usa le donne che non accettano di condividere i loro spazi con persone di sesso maschile e identità di genere femminile vengono ingiuriate, processate, talvolta licenziate con l’accusa di transfobia. Il linciaggio mediatico della scrittrice J. K. Rowling è il caso più clamoroso, ma non l’unico: in tutta Europa si moltiplicano i casi di donne bullizzate, irrise o ridotte al silenzio per aver sostenuto che le donne biologiche e le trans, pur essendo entrambe vittime di discriminazioni, hanno vissuti diversi. Intimidazioni, sabotaggi e contumelie si sono verificati anche in Italia, e ne hanno fatto le spese attiviste insospettabili come quelle di Arcilesbica Nazionale, contro cui alcune sigle gay e trans hanno lanciato una raccolta di firme per espellerle dal circuito Arci. La 'colpa' di Arcilesbica - già attaccata in passato per essersi opposta a utero in affitto, 'sex work', assistenza sessuale e altre forme di mercificazione femminile - è stata quella di contestare l’equiparazione fra sesso e genere.

Giovanni Dall’Orto, scrittore e militante gay, fa notare che i diritti d’un gruppo oppresso non si fondano a spese di altri oppressi; pertanto, se è positivo riservare più posti di responsabilità alle persone trans, è indispensabile sottrarre il loro numero alle quote per gli uomini, non a quelle delle donne. Le cose sarebbero diverse se nella legge contro l’omotransfobia si rinunciasse al concetto di identità di genere per parlare, semplicemente e onestamente, di persone omosessuali e transessuali.

Rita Paltrinieri (Arcilesbica Modena), Monica Ricci Sargentini (Corriere della sera), Marina Terragni (Radfem Italia), Daniela Tuscano (Radfem Nord Italia), Paola Vitacolonna (Gruppo I-Dee Milano)


Siamo arrivati alla vigilia della presentazione alla Camera del testo base della proposta di legge sulla omotransfobia. Annunciato come differente dalle proposte che l’hanno preceduto. Intanto, tensioni, preoccupazioni, precomprensioni e... disattenzioni crescono e si confondono. Ringrazio perciò l’autore e le autrici delle due lettere che pubblico oggi – e che appaiono ispirate da intenzioni piuttosto diverse – per il riconoscimento che tributano all’impegno di “Avvenire” nel dare conto dello status quaestionis, dell’entità e della delicatezza dei problemi e dei rischi,delle diverse sensibilità civili ed ecclesiali toccate e coinvolte, mettendo sempre al primo posto le persone e cercando di coniugare la limpidezza di grandi valori di riferimento con l’attenzione al concreto bene da realizzare e da difendere.

Domani, 25 giugno, dovremmo finalmente conoscere nuova forma e tenore complessivo della proposta normativa che purtroppo ha indotto più d’uno a schierarsi a prescindere e alcuni invece – e meno male! – ad approfondire anche grazie allo stimolo fermo eppure dialogante della Nota diramata due settimane fa dalla presidenza della Cei. Stiamo così arrivando a un passaggio dirimente. Dopo di che, come scrive il direttore generale dell’Unar nella sua cortese lettera, «il contenuto [della pdl] sarà inequivocabile» e questo «contribuirà a un dibattito più serio e circostanziato» (e al quale non ci sottrarremo di certo). L’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali istituito presso la Presidenza del Consiglio, non è ovviamente parte proponente, ma dalle argomentazioni del direttore Loukarelis si coglie che è parte in causa e anche parte sostenitrice del processo legislativo in materia di specifico contrasto a discriminazioni odiose e violente nei confronti delle persone che vengono definite Lgbt. Ma le parole di Loukarelis lasciano intuire anche dell’altro. Proprio là dove egli prevede – facendo proprie le assicurazioni date, anche in un’importante intervista a questo giornale, dal deputato relatore Zan – che non ci sarà alcun «bavaglio verso chi parla di famiglia “tradizionale” e di “padre” e “madre”», il direttore dell’Unar sottolinea che tali questioni «prima poi andranno affrontate, ma non in chiave propagandistica e ideologica, piuttosto tenendo in considerazione i diritti dei bambini e degli adolescenti, visto che credo tutti siano d’accordo sul fatto che non possa esistere nel nostro Paese un’infanzia di serie A e una di serie B». Con altrettanto garbo e con sintetica ma spero sufficiente chiarezza, vorrei sottolineare che la famiglia tradizionale cioè l’unione di una donna e di un uomo aperta alla vita non è qualcosa di cui si “parla”, ma è qualcosa che “è”: non è soltanto un’opinione o addirittura un’affermazione (più o meno) “ideologica”, bensì l’unico rapporto umano generativo di nuove esistenze. Tutti nasciamo da un madre e da un padre, che possiamo anche perdere (per morte o separazione o allontanamento dell’una o dell’altro) ma che non possiamo non avere avuto. Senza due genitori di differente sesso non c’è, appunto, generazione, se non in un’altra dimensione, che è commerciale o comunque strumentale, perché comporta l’acquisto (a diverso titolo) di “materiale genetico” femminile e/o maschile e l’affitto del grembo di una madre. Questo non significa che non si possa essere generativi in altro modo – adottando, educando, elevando spiritualmente e moralmente... – ma semplicemente che padre e madre non sono modi di dire, ma il modo per esserci e di avviare ogni umana traiettoria. Detto questo, sono certo anch’io che nessuno vuole «un’infanzia di serie A e una di serie B». E ogni bambino e ogni bambina, comunque siano stati messi al mondo, per il solo fatto di esistere meritano giusta tutela ed eguali opportunità. Ma questo non significa legittimare pratiche che la legge italiana vieta, come quella della maternità surrogata e stabilire un qualche 'diritto al figlio'. E credo, nelle nostre civili società, bisognerà proprio decidersi a fare i conti col fatto che la prima fabbrica di diseguaglianza infantile è la deliberata esclusione della figura della madre o del padre – che può verificarsi, ma non va premeditata – dalla vita di un figlio o di una figlia. Sono certo di questo come di un altro fatto indiscutibile: nessuno può essere dileggiato, discriminato, perseguitato e fatto bersaglio di violenze per ciò che è, che pensa e che crede.

Anche la lettera che mi hanno indirizzato cinque autorevoli esponenti della cultura femminista italiana è rivelatrice di un deciso impegno, che oso sintetizzare così: che le parole della legge rispettino la sostanza delle cose umane e non pretendano di cambiarla. In questa lettera ci si concentra sull’ambiguità dell’espressione “identità di genere” sostenendo, invece, la validità dell’espressione “identità sessuale”. Un richiamo che non nasce dal caso, ma dall’esperienza: la 'identità di genere', in diverse situazioni e Paesi, si è dimostrata una sorta di grimaldello logico, semantico, prescrittivo e punitivo. Perché ha provocato discriminazioni e criminalizzazioni (ne abbiamo dato conto in questi anni...) che sono state subite anche da donne che resistono all’occupazione dei propri spazi da parte di uomini che, appunto, dichiarano una “identità di genere” differente. Trovo molto efficace la conclusione delle cinque gentili interlocutrici: nella legge contro l’omotransfobia non si ricorra al concetto di “identità di genere” e si scriva «semplicemente e onestamente di persone omosessuali e transessuali».

Personalmente, pur avendo ascoltato e tenendo conto di motivate valutazioni diverse, non sono convinto dell’opportunità di introdurre un’ulteriore e specifica aggravante di omotransfobia. Credo che i princìpi del nostro ordinamento siano saldi e che le serie aggravanti che oggi sono previste a tutela di tutti i cittadini siano adeguate a contrastare discriminazioni e violenze contro le persone omosessuali e transessuali. Ma se davvero il Parlamento intenderà procedere, penso anch’io che sia necessario porre alla base del discorso almeno la «semplicità e onestà» di termini inequivocabili. Sono spesso le ambigue sottigliezze, non la chiarezza, a creare le premesse per ingiustizie, discriminazioni e sopraffazioni. Sapremo presto se si intende camminare o no in una direzione sensata e utile al cospetto dell’opinione pubblica.

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