martedì 23 luglio 2013
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Due esigenze, in tema di relazionalità affettive, potrebbero costituire la base per un dialogo aperto, nella società e nella Chiesa, che è luogo di accoglienza e non di respingimenti: come simbolicamente è accaduto poche settimane orsono, attorno all’altare, nell’occasione delle esequie di un sacerdote appassionato, celebrate dal vescovo che rappresenta l’intera comunità ecclesiale italiana.Da una parte, dunque, nessuno dev’essere offeso o tantomeno maltrattato, o discriminato nella vita sociale e lavorativa, per come vive la dimensione dell’affettività e, in particolare, della sessualità (salvo ovviamente, per tutti, il divieto di esercitare violenza o di compiere abusi su minorenni o soggetti fragili). Dall’altro, devono rimanere libere, senza tentazioni di condizionarle attraverso iniziative legislative collaterali, la riflessione e la manifestazione del pensiero sul significato antropologico della differenza fra i sessi e sull’etica della sessualità, ma anche la discussione sui riflessi giuridici che siano da riconnettersi al sussistere di forme relazionali diverse dal matrimonio quale rapporto legalmente sancito tra una donna e un uomo.In questa prospettiva, giovano davvero a consolidare stili di rispetto e di dialogo le proposte in discussione tese a introdurre norme penali ad hoc (addirittura richiedendo che la pena sia solo detentiva) circa discriminazioni non meglio precisate in materia di «omofobia» e «transfobia», cui si vorrebbe estendere la normativa della legge n. 654/1975 inerente alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi? Si consideri, preliminarmente, che molte altre discriminazioni possono essere altrettanto odiose (per handicap, scelte politiche, status culturale, ecc.) e restano valutabili secondo norme penali di rilievo generale: non senza l’applicabilità peraltro, che potrebbe riguardare anche il nostro caso, dell’aggravante costituita dai motivi abbietti.Le suddette proposte, dunque, intendono equiparare la materia cui si riferiscono a quelle, considerate dalla legge n. 654/1975, che devono rimanere irrilevanti per qualsiasi fine. E – nella versione originaria della proposta di legge, ieri poi rimessa in discussione da parte degli stessi relatori – riferiscono tale materia non a scelte o a condotte riguardanti la sfera affettiva o sessuale, ma ai concetti di orientamento sessuale e identità di genere. Esse, pertanto, mirano a veder riconosciuto sul piano legale, come caratteristiche proprie dell’umano, il fatto che ciascuno si dia un orientamento sessuale e il fatto che esista una identità di genere  indipendente dal sesso biologico. Concetti, questi, tutt’altro che scontati e oggetto di una più che legittima discussione (senza con ciò per nulla negare la complessità dei fattori che incidono sulla definizione del sesso, a prescindere dalle scelte soggettive). Non può essere compito di un diritto laico, in ogni caso, decidere circa l’esistenza di simili caratteristiche: un’antropologia umana rielaborata per legge non è davvero propria di un ordinamento liberale.Quello che si propone corrisponde, in sostanza, a un uso simbolico improprio del diritto penale per funzioni di così detta moralizzazione, che da sempre la dottrina penalistica stigmatizza. Un uso, cioè, finalizzato non tanto a esigenze di tutela, ma a creare nuove sensibilità sociali. Nel contempo facendo affidamento sulla indeterminatezza del concetto di discriminazione perché in futuro si possa tentare di ricondurre al medesimo – a maggior ragione in quanto reso, nell’ambito che qui interessa, penalmente significativo – la non assimilazione, per il diritto, tra la famiglia quale relazione matrimoniale di una donna e un uomo e altre forme di relazionalità. Senza considerare, fra l’altro, che l’applicabilità dell’illecito penale ipotizzato esigerebbe indagini processuali sullo stile di vita sessuale delle parti offese, il che appare potenzialmente lesivo della riservatezza e, a sua volta, poco liberale. Non può non rilevarsi, inoltre, che le auspicate sanzioni penali per discriminazioni sarebbero inflitte con riguardo ad atti compiuti, per lo più, da soggetti con problemi di socializzazione e poco acculturati, aggravandone la posizione penale: sebbene gli stessi avrebbero bisogno, semmai, di interventi educativi e finalizzati alla responsabilizzazione. Poco sopra si evidenziava, del resto, la richiesta del ritorno alla sola pena detentiva per tutte le ipotesi già oggi rilevanti ex art. 3, co. 1, l. n. 654/1975, con un arretramento rispetto alla opzione mitigatoria operata dal legislatore nel 2006 circa le sanzioni per i reati di opinione e per quelli consimili non caratterizzati da violenza. Richiesta cui si accompagna la riorganizzazione della sanzioni accessorie già introdotte in materia dalla legge n. 205/1993, comprendente oneri, come quello del lavoro «a favore delle associazioni a tutela delle persone omosessuali» che, così configurati, finiscono per non risultare affatto costruttivi, ma per creare il rischio di ulteriori rancori e incomprensioni. Quando, piuttosto, sarebbe necessario far leva – la dottrina più avvertita lo ha evidenziato anche con riguardo ai comportamenti razzisti o di intolleranza religiosa – su percorsi di mediazione penale, che guidino a favorire la conoscenza dell’altro, la autonoma proposta di atteggiamenti riparativi e, in tal modo, il dialogo e la riconciliazione.Senza forzature aventi altre finalità, il rispetto di tutti, a prescindere dagli stili di vita in materia sessuale, può essere favorito dalla condivisione di seri progetti socio-culturali aventi per oggetto la dignità inalienabile di ogni essere umano. In tal modo favorendo un clima nel quale, rinunciando ad assimilazioni che non tengono conto delle diversità fra diverse realtà relazionali, sia possibile riflettere con pacatezza sulle norme a esse riferibili, sulle problematiche connesse a ciascuna condizione soggettiva e sui modelli educativi da proporre alle nuove generazioni.​​​​
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