lunedì 6 agosto 2012
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Se il polso di un Paese sportivo si misurasse in base alle medaglie che vince, potremmo dire che non stiamo malissimo. Ma il virus avanza, ed è meglio prepararsi al peggio. L’Olimpiade di Londra scollina la metà esatta del suo percorso e nonostante spade, frecce e carabine funzionino più che discretamente, scopriamo che dopo una settimana di Giochi il bilancio non è esaltante. Un solo giorno è trascorso senza podi azzurri, è vero. Ma il metallo prezioso fin qui incassato, 13 medaglie, è il peggior bottino parziale delle ultime 4 edizioni. Mancano all’appello discipline alle quali siamo storicamente portati, se non altro perché si tratta di stare a galla. Dal canottaggio alla piscina, dove hanno tolto il tappo quando c’erano gli italiani: un flop clamoroso quello del nuoto azzurro. Condito, come nel caso del remo, da polemiche fuori luogo e da un nauseante odore di tutti contro tutti. Ma definire quelle di Londra le Olimpiadi dei veleni in casa Italia, pare onestamente esagerato. Chi perde, purtroppo, difficilmente tace. E di solito accusa, sport nel quale siamo geneticamente da medaglia d’oro. La novità semmai è che qui si arrabbia pure chi vince, rivendicando la paternità di certe medaglie arrivate nonostante (e non grazie) l’appoggio di federazioni sportive definite, nel migliori dei casi, assenti. O addirittura – ingenerosamente, occorre dirlo – incompetenti. E qui sta il punto. Perché non è il numero dei podi in fatale declino a dire che lo sport italiano viaggia verso il crepuscolo, ma quello che sta sotto. Abbiamo vissuto anche nello sport troppi anni al di sopra delle nostre possibilità: il medagliere diceva che eravamo la nona potenza del mondo, ma solo uno sciocco poteva crederci. Abbagliati dai trionfi delle donne della scherma magari, disciplina comoda, ammettiamolo, dove si gareggia in pochi e vincendo due assalti sei già sul podio. Oppure condizionati da qualche straordinaria impresa personale dello sconosciuto di turno. La realtà era diversa, e ora viene a galla. Dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul calcio, e che non esiste una politica sportiva. Che mancano gli impianti e l’attenzione all’attività fisica nelle scuole. E che, soprattutto, la crisi economica anche qui ha bruciato l’albero alle radici. Mentre tutti si stracciano le vesti perché l’Inter non può più comprare i carissimi campioni stranieri e il Milan deve privarsene, molto più in basso troppo volontariato si arrende. Chiudono le società sportive, l’amatorialità che ha sempre nutrito l’agonismo di vertice, passo dopo passo, sacrificio dopo sacrificio, non ha più soldi né tempo per far crescere lo sport. E intanto governo e istituzioni hanno altro per la testa per pensare che senza una gioventù sana, che ha luoghi e occasioni per fare sport, cresce un’Italia obesa, vecchia, fatalmente perdente. In queste Olimpiadi abbiamo scoperto le storie di Campriani e Molmenti, belle ma rammaricanti. Giovani di splendido talento, obbligati a cercare all’estero spazi, occasioni e denari per continuare a vincere. Dopo la fuga dei cervelli, ora c’è la fuga dei muscoli. E di chi li educa, come i tecnici della scherma che il mondo ci invidia, pronti a lasciare l’Italia per cercare non solo ingaggi migliori, ma soprattutto terreni fertili sui quali puntare. Il nostro sport sta chiudendo un’epoca d’oro a livello di risultati, il Coni cambierà presto presidente, altre medaglie (poche) arriveranno di sicuro a farci emozionare. Speriamo non a distrarci troppo, facendoci dimenticare che c’è un tesoro da ritrovare e coltivare in fretta. E che quel tesoro non è sul podio.
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