mercoledì 6 ottobre 2010
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Da almeno un paio d’anni è in corso un sordo quanto aspro conflitto fra tre grandi blocchi politico-economici: da un lato l’Unione Europea e il tandem Usa-Giappone, dall’altro la Cina. Il campo di battaglia è l’export, l’arma impiegata è quella dei cambi. Ed è la Cina con la sua moneta, lo yuan, che sta per il momento vincendo questo scontro. Stati Uniti e Ue ne invocano una rapida rivalutazione per porre fine alla corsa senza reali ostacoli dell’export cinese. Bastano due cifre per capirlo: nel solo teatro europeo Pechino esporta merci per un controvalore annuo di 120 miliardi di euro, contro i 53 miliardi dell’export comunitario; un disavanzo commerciale macroscopico che vede l’Italia, con i suoi 8 miliardi, al terzo posto dopo Gran Bretagna e Olanda fra le nazioni maggiormente sbilanciate nei confronti di Pechino.Alla Cina dunque si chiede di rinunciare a quello yuan debole, anzi debolissimo (9,22 contro l’euro), che finisce per diventare una lama conficcata nel fianco della ripresa economica dopo la grande crisi finanziaria iniziata nel 2007. Ma sia il primo ministro Wen Jiabao, sia il governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan, sia il ministro delle finanze Xie Xuren hanno risposto agli europei nello stesso modo in cui si sono espressi con il presidente Obama: «Non condividiamo la vostra visione, noi siamo a favore di cambi stabili». Una replica lapalissiana; la Cina da anni cresce a ritmi come minimo quadrupli rispetto alle fiacche economie occidentali, due mesi fa ha sorpassato il Pil nominale giapponese divenendo così la seconda economia mondiale: perché mai dovrebbe rinunciare a questa leva poderosa che la pone ormai all’apice delle grandi potenze, ormai quasi più come arbitro che come concorrente? Se fosse vivo Hegel direbbe sicuramente che lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, da molti mesi parla mandarino.Tuttavia in questa marcia trionfale cinese vi sono innumerevoli note stonate. La prima è quella dei diritti umani. Sappiamo bene come la Cina non è e non ha intenzione di diventare una democrazia modellata sui principi ispiratori occidentali, così come ogni anno l’85% delle esecuzioni capitali avviene dentro i suoi confini e la parola tolleranza - nei confronti delle minoranze etniche e religiose - non appartiene al vocabolario di Pechino.Ma c’è un’altra vistosa nota falsa. Quanto potrà durare questo braccio di ferro che vede i cinesi enormemente in vantaggio sui rivali occidentali, non solo per la debolezza dello yuan, ma anche per la stratosferica riserva di obbligazioni americane, ma ora anche europee (la Cina ha "generosamente" acquistato titoli di Stato greci e continuerà a farlo), che Pechino tiene in cassaforte? Secondo il presidente francese Sarkozy - che si appresta ad assumere a novembre la presidenza del G20 - è tempo di un nuovo ordine monetario mondiale, una nuova Bretton Woods che a sessantasei anni di distanza dalla conferenza che nel 1944 ridisegnò le regole e i rapporti fra le monete ristabilisca ruoli, parità e soprattutto una governance dell’economia mondiale. Una governance nella quale il ruolo della Cina è indispensabile.La posta in gioco, come si intuisce, è molto più alta di quello che si può immaginare. Pochi giorni fa il ministro delle finanze di Brasilia ha dichiarato che il mondo si trova in una fase di «guerra valutaria globale». Espressione certamente esagerata, ma che reclama - da parte di un’economia in vigorosa ascesa - quel nuovo assetto che il G20 tenterà di darsi al vertice di Seul di novembre. La Cina chiederà più potere e rappresentanza per sé e per la galassia di Paesi emergenti che si pongono sotto la sua ala all’interno del Fondo monetario internazionale. Servirà di bilanciarlo con ben più di qualche concessione sul piano dei diritti umani e della democrazia sostanziale e di una seria concertazione all’insegna dello sviluppo sostenibile. O avremo solo un’ulteriore dimostrazione di come sulla scena mondiale si sia affacciata ormai una nuova insofferente superpotenza. E che il crepuscolo dell’Occidente rischia non essere solo un’immagine.
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