lunedì 8 settembre 2014
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​Caro direttore,
ho 28 anni, sono sposata, aspetto un figlio. Naturale. Fino a un po’ di tempo fa sarebbe stata la descrizione normale di una giovane donna. Oggi, scrivendo queste parole, mi sento quasi un caso clinico, una specie in via di estinzione neanche tanto ben vista o – come spesso accade – vista come un personaggio di altri tempi trasferitosi nel 2014. Vorrei partire proprio da questo aspetto: quante volte mi è capitato di dire quasi per caso questi aspetti della mia vita alla parrucchiera, al barista, alla collega, alla commessa, e vedere quell’espressione tra lo stupore e l’invidia, colma di desiderio... Il mistero del “per sempre”, che tanto spaventa, e che è parte decisiva della scelta del matrimonio e del dono dei figli, è anche ciò che più attrae proprio perché siamo fatti per questo. E infatti, la maggior parte delle volte, la conversazione finisce con un “magari fosse possibile”… questioni sociali, economiche, lavorative, storie familiari, convincimenti ideologici... tutte barriere che addormentano quel desiderio. Allora io rispondo “è possibile”, e con un sorriso faccio capire che non sono speciale, non sono ricca, non ho un lavoro impermeabile alla crisi. Ed eccolo ancora, quello sguardo... una piccolissima fiammella di quel desiderio che si riaccende... per un attimo. Spesso mi chiedo che cosa posso fare? Come posso convincere? Poi accade che rimango incinta e mi accorgo di questo: non posso convincere, posso solo testimoniare. In mezzo alla babele medicalizzata, contrattualizzata e commercializzata qual è diventata la “pratica” di diventare genitori, io porto un figlio, creato da un gesto d’amore per dono di un Altro. Non è questione di essere credenti, perché è qualcosa che accade, e ti accorgi che anche se lo hai desiderato, non hai potuto far nulla perché ci fosse sul serio. Non hai nessun controllo sulla sua vita. Certo, non bevo alcol, non mangio il prosciutto crudo, non vado ad arrampicare... ma guardo la pancia ancora appena abbozzata e mi chiedo: chi c’è lì dentro? È “nostro” figlio, ma non so chi sia, come sia, cosa diventerà. E qui il grande mistero: non so neppure se nascerà. Questo pensiero, che a volte viene proprio per la consapevolezza del nostro limite, mi aiuta a rendermi conto che l’unica cosa a cui sono chiamata è di “portare”, accompagnare questo qualcuno che proviene da me, ma è altro ed è strutturalmente di un Altro. Il fatto che non sia ancora nel mondo elimina la tentazione di dirigerlo verso ciò che voglio, pensando – in fondo – di poter governare la sua vita, di poter quasi controllare il suo destino. Questa attesa, carica di mistero, ci sta insegnando che la natura delle cose aiuta ad accettare la vita. Così com’è. E quando devi scegliere, il criterio è già intrinseco all’“oggetto” o al “soggetto”. Il mese prossimo farò l’ecografia morfologica... molti vanno a fare questo esame con il timore di sapere cosa scopriranno del bambino. Credo che la paura nasca proprio dal fatto che è diventato quasi automatico dover scegliere di “eliminare” quello che viene definito un “problema” se è presente una malattia. Cioè quello che spaventa non credo sia l’eventuale malattia, perché quello è tuo figlio e per natura sei fatta (e fatto) per accoglierlo. Ma “dover” decidere di definire artificiosamente la vita, così carica di mistero, di dare un tempo al “per sempre” intrinseco nel rapporto col figlio, questo è contro natura. E così “porto” il dono della vocazione matrimoniale e di questo figlio nel piccolo pezzo di mondo dove mi è dato vivere. E questo basta, anche solo per ravvivare in me la certezza di essere fatta per l’infinito. Che ora è anche dentro di me!
Anna Pelleri
Ci siamo già incontrati in questo spazio, cara Anna. Lei allora aveva – così titolai – «26 anni e gli occhi giusti» e io cominciai la mia riposta dicendole che avrebbe potuto «essere mia figlia». Le parlai con l’intenzione e l’affetto meravigliato di uno che ha imparato, vivendo, a essere padre, ma si sente ancora e sempre soprattutto figlio. La ritrovo oggi, e la ritrovo madre. Certo, la sua creatura deve ancora vedere la luce eppure, nutrita dai suoi pensieri e dal suo sangue, sostenuta dal suo respiro, già si alimenta della luce che una madre cristiana accende e custodisce nella vita dei figli che le sono dati (lo so perché anche la mia ha fatto questo con me e i miei fratelli). Con questo vorrei dirle, cara Anna, che lei è parte di una storia che continua e non di una specie in via di estinzione, è parte di una grande famiglia che deve restare umana. Una famiglia nella quale noi cristiani sappiamo che nessuno, comunque viva e per quanto imperfetto sia, conta di meno agli occhi del Padre. Restare umani avere il senso della nostra grandezza e del nostro limite. Questo è il nostro comune (e straordinario) compito in tempi di infinite e anche deliranti tentazioni di potenza. Alla sua nuova e piccola famiglia e a quella più grande di cui ho appena detto, lei porta nel modo originale e unico che è proprio delle donne un po’ della ricchezza del popolo a cui appartiene. Un popolo che non coincide con un’etnia e non abita una sola terra, che ovunque è cittadino e straniero, e al quale Gesù ha chiesto con dolce e imperiosa chiarezza di farsi riconoscere semplicemente da come ama. E l’amore, ha proprio ragione cara Anna, non vede mai solo problemi, vede innanzi tutto le persone. Lei, con questi occhi che sono gli stessi che avevo già conosciuto, ha saputo vedere suo figlio prima di vederlo, senza bisogno dell’ecografia morfologica che pure farà. Le auguro ancora una volta di conservare e approfondire questo sguardo e di usarlo in ogni giorno della sua vita. È contagioso, mi creda.
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