Innesco dopo innesco, come si è arrivati alla nuova crisi in Medio Oriente
sabato 14 giugno 2025

Tutte le guerre di Israele sono guerre difensive preventive. O almeno così cerca di convincerci il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, ormai sempre più simile al “dottor Stranamore” del famoso film di Stanley Kubrick. E questo stanno dicendo in continuazione i media e i politici israeliani: siamo stati obbligati ad attaccare per garantire la nostra sopravvivenza. Tesi francamente bizzarra: non solo lo Stato ebraico gode di una superiorità militare totale, ma è anche un Paese che si è dotato clandestinamente di una grande quantità di armi nucleari. E nessuno nella regione ha dubbi sul fatto che Israele queste armi, se minacciato esistenzialmente, le userebbe.

La verità è che da anni Netanyahu voleva fortissimamente un attacco in grande stile contro il programma nucleare iraniano; desiderio frustrato dai ripetuti divieti delle passate amministrazioni statunitensi. Ieri notte, nonostante le dichiarazioni ufficiali del presidente Trump – solo a parole contrario all’operazione –, le prime ondate di attacchi. Di quella che si preannuncia come una campagna lunga di distruzione. Un bombardamento pesantissimo non solo contro le istallazioni nucleari e quelle del programma missilistico, ma che ha colpito il cuore stesso di Teheran, uccidendo i vertici militari iraniani e diversi importanti scienziati nucleari, raggiunti nelle loro case mentre dormivano assieme ai familiari. Lo stesso Hossein Salami, comandante delle Guardie rivoluzionarie – i potentissimi pasdaran – è stato eliminato in questi attacchi di grande precisione, che ricordano la campagna attuata contro i vertici di Hezbollah e di Hamas.

l principale sito per l’arricchimento di uranio – quello di Natanz – sarebbe gravemente danneggiato, ma non quello sotterraneo di Fordow, fondamentale se l’Iran decidesse ora di uscire dal Trattato di Non Proliferazione e cercare di dotarsi di un’arma atomica.
Eccoci di nuovo pericolosamente in balia di un’altra guerra in Medio Oriente, appesi tanto alle reazioni iraniane quanto alla volontà, e capacità, degli Stati Uniti di frenare l’estremismo israeliano.

Ma perché si è passati dalla speranza di un accordo diretto fra Stati Uniti e Iran sul nucleare a questo devastante attacco israeliano? Le motivazioni sono complesse e molteplici, intrecciando questioni tecniche, geopolitiche e di tattica politica interna ai Paesi coinvolti. Innanzitutto, vi è stata la mossa del comitato direttivo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che – per la prima volta dal 2002 – ha stabilito che l’Iran abbia violato i suoi obblighi come Paese firmatario del Trattato di non proliferazione (Tnp). Una decisione attesa, ma che ha indubbiamente offerto anche una sorta di giustificazione all’attacco israeliano. E qui vi è il secondo “innesco” della nuova crisi sul nucleare: il governo di ultra-destra appariva sempre più in bilico. Non solo e non tanto per la sua campagna militare contro la popolazione civile di Gaza, che indigna il mondo intero, quanto per questioni di politica interna. E ogni volta che Netanyahu rischia di perdere il potere, egli cinicamente aumenta le tensioni esterne, accentuando sempre più l’aggressività dello Stato ebraico. Dinanzi al rischio di un voto di sfiducia, nulla offre più salvaguardie che aprire un nuovo fronte di guerra, alzando la posta in gioco. Soprattutto se diretta contro un nemico indebolito da quanto successo dopo il 7 ottobre 2023.
Ma un’altra motivazione è rappresentata dalle difficoltà delle trattative “quasi dirette” fra Washington e Teheran. Tanto gli iraniani quanto gli americani sembravano sinceramente interessati a chiudere questo accordo. Il problema è che i suoi dettagli tecnici sono iper-complessi e minuziosi, cosa che richiede pazienza e negoziatori capaci e preparati. E gli inviati di Trump non lo sono. Dopo l’escalation militare, non resta che polvere di ogni accordo. E forse, allo stesso Trump non dispiace questa conclusione.

Va detto che anche Teheran ha provocato stupidamente la comunità internazionale. Non solo perché trattare con i negoziatori iraniani – lo sa chi ci ha provato – è impresa sfiancante e straordinariamente irritante. Ma l’errore fondamentale è l’aver trasformato l’arricchimento dell’uranio in una questione ideologica e di principio, che ha ridotto le mosse a disposizione di Teheran, dato che rinunciarvi avrebbe fatto perdere la faccia al regime, tanto all’estero quanto all’interno. Il programma nucleare è costato enormemente all’Iran, tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico e diplomatico. E non ha portato Teheran ad avere lo scudo di un’arma atomica, come nel caso nordcoreano, mostrando quanto vuoti fossero i proclami dei suoi leader.
Attorno alla vecchia Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, c’è ora il vuoto: quasi tutti i suoi fidati comandanti sono stati uccisi. Le milizie nella regione frantumate. I suoi pasdaran incapaci di difendere il Paese e di attaccare il nemico. Nei prossimi giorni capiremo quali saranno le sue decisioni: se incassare il colpo e cercare di resistere all’umiliazione o allargare il conflitto. Scelta, quest’ultima, probabilmente suicida. In Israele, ebbra dell’invincibile sua forza, si accarezza invece l’idea di provocare la caduta del regime. Senza capire che lo strumento militare, privo di una prospettiva politica, è solo una crudele esibizione di potenza.


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