lunedì 26 ottobre 2015
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​Come un grande file compresso, che richiede il necessario programma per essere aperto e sviluppato, anche la nuova "Costituzione 2.0" targata Renzi-Boschi avrà bisogno – se si arriverà come è possibile e persino probabile al varo definitivo – di un attento lavoro di attuazione e di adeguamento normativo, per tradurre in pratica le novità approvate. Non si tratta di una questione tecnica, ma di un’esigenza sostanziale. Anche dopo il varo della Carta fondamentale del 1948 ci vollero diversi anni perché molti princìpi base adottati dai padri costituenti venissero concretizzati in norme specifiche. Basti pensare all’ordinamento regionale, che prese corpo effettivo addirittura 22 anni dopo, con le prime elezioni del 1970. Non ci si dovrà scandalizzare, quindi, se il lavoro di "aggiustamento" successivo al referendum confermativo, atto finale che con ogni probabilità dovrebbe tenersi tra un anno, richiederà più di qualche mese. Anche perché la revisione del testo originario ha interessato una quarantina di articoli, ossia quasi un terzo del totale.Ma se l’obiettivo dei "padri ri-costituenti" dei nostri giorni è quello più volte dichiarato di migliorare e snellire la struttura e il funzionamento delle istituzioni repubblicane, se tra gli scopi prefissati figura – come è fortemente auspicabile – anche la crescita di un nuovo senso civico nazionale, di una più salda identificazione del Paese reale con quello legale, allora certamente si deve aggiungere all’elenco dei punti da attuare anche un articolo che non è stato minimamente toccato dal processo riformatore in corso. Mi riferisco al principio fissato nell’articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».Si tratta di una questione a suo tempo fortemente dibattuta all’Assemblea costituente, rimasta poi per alcuni decenni "in sonno" e tornata alla ribalta negli anni 90, con l’esplosione della crisi successiva alla scoperta di Tangentopoli provocata dalle inchieste della magistratura, in primis da Mani Pulite. Ma anche dopo il ritorno di attenzione e le ricorrenti denunce dei guasti causati dalla partitocrazia, tutti i tentativi di portare in discussione proposte di legge per dare attuazione al principio si sono arenati. L’obiezione di fondo opposta si può riassumere in un interrogativo non banale: come disciplinare la vita interna di un partito per garantirne la democraticità e la trasparenza, ma senza lederne l’autonomia o, peggio ancora, senza consentire alla pubblica autorità di condizionarne la libera dialettica? In realtà, dietro questo scrupolo "nobile" si intravede una ben più interessata volontà delle forze politiche di lasciarsi le mani il più possibile libere nella cura dei propri affari interni.Nel frattempo, qualche ridotta forma di controllo è stata inserita, per così dire, dall’esterno, grazie alle normative che si sono succedute sul finanziamento pubblico dei partiti, che viene ora condizionato a una serie di comportamenti e di verifiche di legalità formale. Ma si tratta di indicazioni minimali, che non danno garanzie sufficienti sul terreno della democraticità interna.Se si va a scavare negli atti parlamentari, si constata che anche in questa legislatura sono piovute proposte di regolamentazione e di disciplina della materia. Se ne contano, tra Camera e Senato, almeno una quindicina, che suggeriscono soluzioni diverse per imporre alle forze politiche, presenti e future, regole democratiche a garanzia degli iscritti e degli elettori che poi le votano. Più di una, ad esempio, obbliga ad adottare il metodo delle "primarie" per scegliere i candidati da inserire nelle liste. Una "ricetta" discussa e che non sembra facile rendere obbligatoria.Adesso però ci sono ragioni nuove e più stringenti che dovrebbero convincere a passare dalle parole ai fatti. L’effetto congiunto del nuovo sistema elettorale, l’Italicum, con la fine del bicameralismo perfetto, accentuano il rischio di una maggiore concentrazione di poteri in poche mani. Al tempo stesso, da parte degli italiani non ci sono certo segni di una ripresa di fiducia verso i partiti. Da un lato, il numero degli iscritti resta ai minimi storici; dall’altro, a ogni tornata elettorale si gonfia la quota degli astenuti.Se dunque venisse dal Palazzo un forte segnale di rinnovamento, a cominciare da una legge che faccia dei partiti delle vere "case di vetro", forse la ormai annosa (e ora ancor più pericolosa), corsa al disimpegno dalla vita pubblica potrebbe arrestarsi. Fatta – o rifatta – la Carta, bisognerà cioè fare in modo che venga usata bene e da tutti gli italiani che lo vogliono. Anzi, anche e soprattutto da quelli che oggi non lo vogliono, perché non intendono più saperne di politica e di istituzioni. Solo così la scommessa riformatrice sarà davvero vinta.
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